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2 Luglio 2013
Vivere di corsa come Marco Gadaleta
Il giovane ostacolista del CUS Torino che ha sfiorato la qualificazione agli Europei di atletica racconta la propria esperienza nel mondo dello sport
Giulia Ongaro e Matteo Tamborrino
«C’è un circolo virtuoso nello sport: più ti diverti più ti alleni; più ti alleni più migliori; più migliori più ti diverti». Una frase emblematica questa del tennista americano Pancho Gonzales, che suona più come un monito, un insegnamento: lo sport è un’avventura rischiosa nella quale non si smette mai di sognare e di perseverare, nonostante a volte sia necessario un pizzico di realismo; non sempre infatti le scelte sportive dipendono semplicemente dalla propria volontà. A spiegarlo è Marco Gadaleta, 21 anni, nato ad Alba, studente presso l’Università degli Studi di Torino e giovane promessa dell’atletica leggera.
Marco, come ti sei avvicinato al mondo dell’atletica?
«Ho cominciato a correre molto presto, all’età di 12 anni, nell’atletica Alba Mondo, la sola squadra della città. Era ai tempi una piccolissima società con poche pretese, gestita interamente da volontari. Non ho cominciato per mia spontanea volontà, ma è stato mio padre a indurmi a provare. Io preferivo giocare a calcio, cosa che ho fatto per l’intera infanzia. Ho avuto la “fortuna” di non trarne mai soddisfazioni, poiché per seguire i miei amici capitavo sempre in squadre periferiche, nonostante me la cavassi piuttosto bene. Sconsolato dalle innumerevoli partite perse e dagli ostinati e infruttuosi tentativi di cambiare la situazione, ascoltai il consiglio di mio padre».
Ora la tua specialità sono i 400 metri ostacoli. Com’è nata questa passione?
«Ai 400 ostacoli sono arrivato tardi, intorno ai 16 anni, perché quando si è piccoli si provano un po’ tutte le specialità. E anche qui devo ammettere che la scelta non è stata completamente mia: da una parte è stata la casualità degli eventi, perché il mio allenatore aveva una predilezione per gli ostacoli, dall’altra la loro naturalità, il fatto di essere portato per questa particolare disciplina sportiva. Bisogna dire che nell’atletica vige una sorta di determinismo: se desideri fare i 100 metri perché il tuo idolo è Bolt ma scopri di essere portato per i 10.000, hai due possibilità: adattarti a macinare chilometri, o continuare a guardare Bolt in televisione».
Poche settimane fa ti sei classificato al quinto posto nei campionati nazionali di categoria di Rieti, gradino preliminare per partecipare agli Europei. Che cosa ha significato per te?
«Questo è il quinto anno che partecipo ai campionati italiani di categoria, ma è sempre un’emozione forte, addirittura fin troppo forte. L’agitazione e l’eccitazione sono sempre difficili da dominare, visto che in fondo è la gara che hai preparato per tutto un anno e in cui ti giochi tutto in una manciata di secondi. Quest’anno la posta in gioco era davvero alta. Fatto il minimo di partecipazione agli Europei, l’effettiva partecipazione non era così scontata. La Federazione infatti porta al massimo tre atleti per ogni specialità e quest’anno eravamo in cinque papabili. Per essere sicuro di poter andare agli Europei in Finlandia avrei dovuto conquistare un bronzo in finale, ma a quanto pare era un obiettivo davvero irraggiungibile. Nonostante ciò, mi sono tolto la soddisfazione di aver fatto il minimo e di aver tolto ben otto decimi al mio record personale».
Tu fai parte del CUS, il Centro Universitario Sportivo di Torino. Che tipo di realtà è?
«Il CUS Torino è una società ben più grande rispetto a quella in cui mi allenavo ad Alba. La differenza sta essenzialmente nei vantaggi offerti: ora ho un gruppo molto numeroso di compagni con cui mi alleno e coi quali mi trovo molto bene; l’atletica è infatti anche uno sport di squadra e non soltanto una dimensione individuale. Il clima è molto familiare e non ci sono quei giochi di potere caratteristici delle grandi squadre».
Parlare di sport significa parlare anche di opportunità e di professionismo. Qual è la tua esperienza?
«Personalmente non sono lontanissimo dal raggiungere i requisiti minimi richiesti per entrare in un corpo militare, ma sarà difficile dal momento che nella mia specialità c’è un livello molto alto. Resta comunque un mio sogno: continuerei ad allenarmi come ho sempre fatto, ma riceverei uno stipendio. Riguardo poi le “vetrine” per i giovani, credo che siano pochissime, tanto in Piemonte quanto nel resto del paese. Ahimè, l’atletica è uno sport poco seguito in Italia; le resta comunque il pregio di non essere inflazionata come il calcio».
Sei mai venuto in contatto con il doping, o perché ti hanno proposto di prendere qualcosa di sospetto, o perché lo hai percepito intorno a te?
«Il doping rimane un mito nella mia fetta di mondo: non ho mai visto doping, in nessuna sua forma. Un po’ perché il mio livello è ancora troppo basso per farne uso e un po’ perché in Italia girano troppi pochi soldi nell’atletica; penso infatti che l’unico motivo che possa spingere qualcuno a drogarsi per andare più forte sia il denaro. Nient’altro».
“L’importante è partecipare”: era il motto di Pierre de Coubertin. Quanto può bruciare però una sconfitta?
«Ho sempre pensato che quella frase fosse solo un modo per consolare coloro che perdono un po’ troppo spesso; allo stesso modo, anche il famoso “Chi va piano, va sano e va lontano” non ha gran valore nel mondo dell’atletica: insomma, se vai piano arrivi ultimo! Fuor di metafora, la sconfitta brucia, soprattutto in due casi: quando perdi contro qualcuno che conosci bene; e quando perdi contro te stesso. L’atletica ha proprio questo di affascinante, il fatto che nella maggior parte delle gare si corre contro il tempo, il proprio “personale”, e quindi contro se stessi. Lo sforzo più vero e intimo dell’atletico non è quello della prevaricazione, ma quello di migliorarsi. Ad ogni modo, rimane sempre un gioco e in tutti e due i casi si accetta la sconfitta pacificamente come un’opportunità costruttiva di crescita».
Link utili:
CUS Torino
Amate lo sport? Avete mai pensato che diventare un atleta potrebbe essere la vostra strada?
citazione: penso infatti che l’unico motivo che possa spingere qualcuno a drogarsi per andare più forte sia il denaro. Nient’altro
Non è vero. Ho gareggiato in competizioni (non di atletica) in cui la posta in palio era una coppa di latta e purtroppo il doping scorreva copioso (ci sono state anche squalifiche). Anche nell’atletica, in Italia, purtroppo il doping c’è anche se probabilmente non è particolarmente diffuso. Potrei per esempio fare nomi di lanciatori di peso che sono stati trovati positivi e squalificati, quindi non si tratta di illazioni. Questo non significa che un atleta dotato e determinato, perseverando non possa raggiungere risultati di alto livello senza farne uso, come dimostra l’autore dell’articolo.