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28 Ottobre 2014

Il diritto al (buon) cibo

L’intervento di Stefano Rodotà al Salone del Gusto sul riconoscimento giuridico dei beni comuni, categoria in cui si deve far rientrare anche ciò che mangiamo

T.P.

Il professor Stefano Rodotà durante il suo intervento al Salone del Gusto

Lo scorso sabato al Salone del Gusto, Stefano Rodotà – professore emerito di Diritto Civile all’Università La Sapienza di Roma e deputato per  quattro legislature – ha tenuto una lectio magistralis sul tema che ha maggiormente innervato la sua riflessione negli ultimi anni: i beni comuni, in questo caso il cibo come bene comune. L’accento è stato posto anche sulla qualità: il diritto al cibo non si esaurisce nell’essere sfamati ma, in accordo con una delibera delle Nazioni Unite, deve trattarsi di cibo conforme alla cultura e alle usanze della persona.
Al termine della conferenza, che ha toccato i nodi dei brevetti in ambito alimentare e le problematiche legate all’accesso a Internet (in un, forse ardito, parallelismo tra la fame in senso fisico e la fame di conoscenza), siamo riusciti a porre qualche domanda al professor Rodotà sulle possibilità di riconoscimento giuridico e legislativo della categoria dei beni comuni.

Come si può giungere a un riconoscimento giuridico dei beni comuni?
«Che si possa giungere a una nuova disciplina è sicuramente possibile. Al Senato c’è una proposta che è stata presentata da vari parlamentari e si dovrebbe partire da lì. È una proposta che modificherebbe radicalmente il Codice Civile nella parte in cui si riferisce ai beni pubblici: scompone la categoria dei beni pubblici e introduce la categoria dei beni comuni con piena legittimità».

Secondo lei sarebbe possibile parlare di costituzionalizzazione, cioè di inserimento di una nuova norma nella Costituzione?
«Costituzionalizzazione è una parola molto impegnativa, una procedura più complessa e presuppone che ci sia una definizione condivisa di beni comuni. Invece, se noi cominciamo modificando il Codice Civile, che è una legge ordinaria, facciamo un passo importante e rivitalizziamo una norma che c’è già nella Costituzione, l’art. 43, per la quale in situazioni di monopolio o in presenza di servizi pubblici essenziali, questi possono essere affidati a comunità di lavoratori o utenti. I costituenti non pensavano certo ai beni comuni ma la Costituzione è un deposito di buone proposte; questa norma consentirebbe già oggi di dire che ci sono servizi pubblici essenziali che possono essere affidati a comunità di lavoratori o utenti nella logica dei beni comuni. Sarei inoltre molto cauto anche perché nel dire “bisogna trovare la costituzionalizzazione” qualcuno potrebbe obiettare “Ma se non c’è in Costituzione, allora…”».

Di quali valori sono portatori i beni comuni?
«Sono completamente diversi rispetto ai valori del mercato. I riferimenti sono i diritti fondamentali delle persone, il che vuol dire uguaglianza, situazioni di parità, rispetto della dignità, universalismo».

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Categorie: Cultura

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