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18 Maggio 2015

Philippe Daverio illumina il Salone con le avanguardie

Nella mattinata di sabato il critico riempie l’Auditorium oscillando tra Cesare e Marinetti

Matteo Fontanone

Philippe Daverio

Da qualche anno a questa parte, nulla fa più Salone del Libro della lectio magistralis di Philippe Daverio. Questa volta, colui che può essere definito il critico d’arte più eclettico e apprezzato dal pubblico presenta in Auditorium il suo ultimo saggio, Il secolo spezzato delle avanguardie, edito da Rizzoli nel 2014.
Daverio ha il talento naturale della divulgazione: rende interessante ogni tema che tratta, sa come far diventare digeribile anche il concetto più teorico. Inizia con una domanda fondamentale: perché il secolo delle avanguardie, il Novecento, sarebbe spezzato? «L’uomo, per inclinazione, considera i secoli soltanto in base al numero che hanno, come se la storia obbedisse alla numerologia. Esistono dei secoli pieni e lunghi per definizione, come il XIX; il XX l’ha ben definito Hobsbawm parlando di secolo breve: inizia a Sarajevo nel 1914 e finisce ciclicamente con la clamorosa tappa di Mitterrand ancora a Sarajevo nel 1992, tra le bombe». Mentre questa categorizzazione funziona bene per la storia politica, non possiamo applicarlo alla storia dell’arte.

COLLOCARE L’AVANGUARDIA
Il secolo delle avanguardie è compreso tra due lampi: nasce con l’Expo di Parigi del 1899, «molto meglio di quella milanese perché fece scalpore, si pensi all’illuminazione artificiale della Tour Eiffel», e si chiude sulle bombe atomiche in Giappone. Finita la guerra, il baricentro dell’arte si sposta dall’Europa agli Stati Uniti: «La data clou è la Biennale di Venezia del 1964: in Europa tornava a fare capolino la sinistra, l’America reagisce usando l’arte come affermazione della propria supremazia e, nell’arco di una sola rassegna, se ne impadronisce».
Simbolo di tutto questo, i marines che portavano le opere al Lido. «La situazione è ancora la stessa, basta fare un salto a Venezia: l’Europa è un palcoscenico a basso prezzo in cui far vivere operazioni artistiche inventate a New York. Dopotutto, Venezia è più gradevole di Chicago, si mangia meglio e gli alberghi sono più cortesi».

CENNI DI AVANGUARDIA NELLA STORIA
Nel dare al concetto stesso di avanguardia un collocamento storico, Daverio ne colloca la nascita nel De Bello Gallico di Cesare: «L’avanguardia militare andava in avanscoperta alla ricerca dei Galli. Alcuni morivano, altri tornavano con informazioni utili che regalavano la vittoria». Già, perché avanguardia è innanzitutto un’indicazione di metodo: «Guardiamo a Bonaparte: quando inizia il conflitto teorico con la parte giacobina al cui interno è cresciuto, se la prende con alcuni di loro e li chiama “gli ideologi”. Napoleone, forse non rendendosene conto, sta facendo avanguardia. Nel 1829, durante uno spettacolo di Hugo, a Parigi ha luogo uno scontro generazionale: giovani e vecchi che si buttano addosso foglie d’insalata e si insultano. È il primo movimento pre-sessantottino dell’Occidente, la prima genesi consapevole del concetto di avanguardia: per essere di rottura bisogna essere giovani e non avere interessi specifici da difendere».

L’AVANGUARDIA PASSA DALL’ITALIA
In Italia, la prima avanguardia è quella del caffè Michelangelo: «Mentre in Francia la lotta intergenerazionale, a Firenze è l’opposto: nel 1855 la città è già filounitaria, tollerante e sgangherata. Gli artisti del caffè si accorgono che provare a vendere quadri è inutile: i fiorentini hanno avuto il Cinquecento e la loro coscienza è a posto, l’arte contemporanea non gli interessa più. La scoperta di questo gruppo di disperati è che l’arte può esistere anche senza riscontro».
Avviene la stessa cosa in Francia con il Salon des Réfuses del 1874, che per le avanguardie costituisce una tappa fondamentale: finalmente la grande intuizione, si può vivere al di fuori dell’ufficialità. Da quel momento in poi, in Francia le avanguardie si susseguono una dopo l’altra: è un «gioco delle onde» ma il panorama è ancora manchevole di teorie che definiscano l’avanguardia come un comportamento necessario. È così che arriva quel «trombone di Marinetti», che Daverio definisce «una costruzione umana molto interessante». Secondo il critico, «il manifesto di Marinetti va letto in francese, la versione italiana è troppo democristiana. Le “idee che uccidono” sono una formulazione anarchica e bellissima, le “idee per cui vale la pena morire” perdono d’intensità».

LA FINE DELL’ESPERIENZA ITALIANA
La rottura di Marinetti è ideologica ma rientra nell’ambito dell’arte: «Se Marinetti è fascista allora come dovremmo chiamare La grande proletaria s’è mossa di Pascoli?». L’avanguardismo italiano è interventista. Marinetti, Pascoli, D’Annunzio: tutti volevano la guerra. Ma l’Italia, dice Daverio, «eredita dal Piemonte la tradizione di entrare per ultimi nella guerra con l’idea che ci si guadagni, poi di solito finisce male». Funziona così anche per la Prima Guerra Mondiale: mentre l’Europa sta già contando i suoi due milioni di morti, l’avanguardia riesce a stimolare il paese e lo porta fino alla guerra. Molti protagonisti di quella spinta propulsiva muoiono nelle trincee, altri, ironia della sorte, con degli incidenti nelle retrovie che di eroico hanno ben poco.
Il finale di Daverio è tra il rassegnato e il divertito: «L’Europa ci dovrebbe riconoscere che siamo stati i promotori dell’avanguardia, ma come spesso ci capita con le idee buone, le gettiamo per strada».

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Categorie: Cultura

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