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28 Giugno 2016
La “Giovine Italia” dell’immigrazione femminile
Domani e giovedì al Teatro Vittoria un affresco sulla vita, sulle difficoltà e sui sogni di donne di ogni età che hanno visto nel lasciare il loro paese l’unica speranza per il futuro
Silvia Bruno
Il rapporto fra prime e seconde generazioni di immigrati raccontato al femminile, attraverso il legame tra le madri e le figlie, è il tema centrale di La Giovine Italia, spettacolo a ingresso gratuito che andrà in scena il 29 e 30 giugno alle 21 al Teatro Vittoria di via Gramsci 4 a Torino (prenotazione consigliata fino ad esaurimento dei posti disponibili).
Si tratta di un progetto artistico della compagnia teatrale Almateatro – da più di vent’anni impegnata a contrastare il razzismo e la xenofobia coinvolgendo le comunità migranti come soggetti culturali – e nato nell’ambito del bando MigrArti promosso dal Ministero dei Benu Culturali. A raccontarcelo meglio sono Vesna Scepanovic, giornalista, attrice e co-realizzatrice del progetto e Deqa Mohamed, italo-somala, studentessa di cinema, appassionata di teatro.
Lo spettacolo mette in scena le storie reali delle attrici protagoniste oppure racconta vicende inventate?
Vesna: «La tradizione di Alma Teatro è stata da sempre quella di mettere in scena i temi più sentiti dalle donne artiste e attiviste culturali e politiche che compongono il gruppo. La Compagnia costruisce le proprie drammaturgie partendo da sé, dall’urgenza artistica e dalla realtà transnazionale in cui vive, interrogandosi sul mondo. Le storie delle donne protagoniste, le memorie, i suoni, i racconti, le lingue, i vissuti sono l’inizio del processo creativo, teatrale. All’interno delle relazioni fra vecchie e nuove migrazioni, tra le madri e le figlie, l’obiettivo è soprattutto quello di porsi delle domande. Cosa ne è stato dei sogni delle madri venute in Italia più di venti anni fa, cosa sono i desideri delle figlie nate e cresciute in Italia. Ma anche indagare teatralmente insieme alle figlie le nuove soggettività, i loro pensieri, capire come vedono la società contemporanea, le nuove forme dei confini, la vita lavorativa nei plurimi spazi geografici, non accettando di essere collocate e identificate dentro un’unica definizione, spazio o nazione. Abbiamo cercato di raccontare tante storie. Al centro dell’attenzione le figlie e i loro sogni, ma anche le gioventù mancate, morte nel mare, un futuro negato al continente stesso. Un’altra storia è costruita intorno alla scarsa conoscenza delle figlie dei luoghi che appartengono alle madri. Abbiamo cercato di capire come vivono questi due mondi paralleli tutti i giorni in casa, quotidianamente, senza ingabbiarle all’interno delle “culture” dei genitori, ma interrogandoci sulle loro visioni del futuro e sui loro sogni».
Dalla vostra esperienza quali sono le differenze maggiori fra l’immigrazione femminile di 10-20 anni fa e quella di oggi? In questi fenomeni è cambiato il ruolo della donna?
Vesna: «Negli anni ‘90 esisteva sentivamo ancora la prospettiva del futuro, la possibilità di inclusione culturale ed economica, Torino era un’esperienza positiva. Oggi ci troviamo in una situazione molto più complessa: l’aumento delle guerre e della violenza ha provocato un grande flusso di persone provenienti da tutti i continenti, sia per politica neoliberale, che per motivi ambientali. Oggi le persone che giungono in Europa fuggono dal Medio Oriente e dall’Africa e chi chiede asilo politico resta intrappolato dalle leggi europee, dalla paura dei cittadini europei di accettare l’altro. Quindi la nostra unica possibilità è quella di resistere rispondendo con l’arte, con i nostri corpi e il nostro canto. La migrazione al femminile ha un enorme ruolo in Europa e dal punto di vista economico e culturale è avvenuto un grande cambiamento della realtà italiana. Il desiderio di migrare e di garantirsi un’autonomia economica ha consentito alle donne che giungevano in Italia di riprendersi alcune forme di autodeterminazione. Per le protagoniste della Giovine Italia, fare teatro da più di 20 anni è stato un processo che ha dato continuità culturale e politica al nostro vivere in Italia e che ha costruito l’opportunità di resistere, creare e immaginare la vita. Nessuna protagonista dello spettacolo poteva intuire la sorte dell’Europa di questi giorni, la paura o l’interesse economico della Gran Bretagna di uscire dall’UE, mentre la parte dei Balcani attende l’entrata dal 1995. Noi non accettiamo l’innalzamento dei muri e dei confini, la morte di chi decide di migrare».
Le giovani generazioni nate qui riescono effettivamente a fare da ponte fra la cultura della loro famiglia d’origine e l’Italia, Torino? Quanto queste ragazze si sentono cittadine del loro paese, italiane, europee?
Vesna: «Alcune protagoniste dello spettacolo, le figlie, sono nate in Italia. Le altre sono venute con i genitori da piccole e hanno vissuto qui l’infanzia e il percorso scolastico italiano, condividendo le proprie esperienze con le ragazze italiane e dunque, a tutti gli effetti, possono essere considerate cittadine italiane, ma a differenza di queste ultime ci sono, ancora dopo decenni, difficoltà per ottenere la cittadinanza italiana. Vivono qui, si muovono, studiano, quindi sono parte integrante del nostro tessuto sociale. Ma rimangono a lungo le cittadine senza diritti, solo perché figlie di migranti».
Deqa: «Dovendo crescere e vivere quotidianamente in entrambe le culture, le giovani generazioni si sentono un “ponte” attraverso cui passa l’espressione di una doppia cultura, perché conoscono quelle di entrambi i paesi. E questa caratteristica è sempre stata sentita come una ricchezza. Forse durante l’infanzia era più difficile, perché ci si sentiva escluse e diverse e perché è il periodo in cui deve ancora formarsi una identità. Crescendo, invece, sapere più lingue, ragionare in due lingue, e avere a che fare con persone di culture diverse, ti fa sentire di avere qualcosa in più da dire e da raccontare. Ciò significa sentirsi integrato ma al contempo anche outsider, vedendo le cose e vivendo la vita da un’altra prospettiva».