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20 Marzo 2020
Un Raggio a Mirafiori Nord
Intervista a Fabrizio Billero, fondatore della cooperativa che come scelta precisa assume persone in difficoltà per gestire punti di aggregazione del quartiere
Aurora Saldi
Ristorazione e integrazione. Sono i capisaldi attorno cui ruota il lavoro della Cooperativa Sociale Raggio, attiva su Mirafiori Nord e Gerbido, che offre luoghi di socialità ai giovani del territorio, oltre a creare opportunità di lavoro per soggetti svantaggiati. Ne abbiamo incontrato il presidente, Fabrizio Billero.
Quando e perché nasce la Cooperativa Sociale Raggio?
«La Cooperativa nasce alla fine dell’ottobre del 2012, con l’idea di creare aggregazione a Mirafiori Nord. Scegliere di agire sotto forma di cooperativa per noi è stato anche un atto politico: un modo per promuovere il mutuo aiuto, il lavoro per i soci oltre che, ovviamente, la democrazia e l’orizzontalità decisionale.
Una bottega e un gruppo di acquisto solidale (Raggio Alveare), il Baretto, la Caffetteria della Cascina Roccafranca e l’osteria Andirivieni: tanti i vostri progetti all’attivo. Come sono nate queste idee e che messaggio vogliono raccontare al quartiere?
«Il primo a vedere la luce è stato, nel 2013, il Baretto: un piccolo locale al confine tra Mirafiori Nord e Gerbido, nato per offrire un’occasione inedita di socialità al quartiere. Dopo due anni abbiamo partecipato al bando per la Casa di Quartiere di Cascina Roccafranca e abbiamo aperto l’Andirivieni Osteria e Caffetteria. Al centro dei nostri progetti trovano spazio messaggi diversi. Uno di questi è sicuramente l’inserimento lavorativo dei soggetti socialmente svantaggiati: nel tempo siamo diventati un vero e proprio punto di riferimento per l’approdo di personale, anche per i servizi sociali e le altre cooperative torinesi. Abbiamo poi sviluppato un’attenzione per le materie prime di cui ci serviamo, costruendo una narrazione legata non tanto alla qualità “costi quel che costi”, ma al rapporto diretto con il produttore. A essere buono non è insomma solo il prodotto, ma è il percorso intero con cui arriva sulle tavole: questa è per noi quindi una precisa scelta politica».
Quello tra lavoro e inclusione è un rapporto complesso: potete raccontarci questa scelta? Che rapporto ha con il quartiere?
«Intanto bisogna dire che la rete dello svantaggio è molto ampia: con noi lavorano persone con disabilità medio-lieve, persone in detenzione o provenienti da un percorso di riabilitazione dalla tossicodipendenza o dall’alcolismo, migranti. La Cooperativa oggi conta 26 dipendenti, di cui il 40% proviene da questi contesti. La popolazione di Mirafiori Nord, quartiere dormitorio, è rimasta abbastanza statica negli anni: non è particolarmente multiculturale, né particolarmente svantaggiata. Se non fosse per questo tipo di progetti, l’incontro tra le soggettività che lavorano con noi e gli abitanti del quartiere sarebbe quasi impossibile».
Il vostro è quindi un lavoro in cui il rapporto con il tessuto locale è molto importante. Che impatto potete dire di aver avuto su Mirafiori Nord?
«Quando abbiamo concepito il Baretto ci hanno scoraggiati: un progetto del genere non sarebbe sopravvissuto. Nella zona i bar e le attività ristorative sono poche, e chiudono tutte dopo una certa ora. Fare aggregazione sembrava quasi un miracolo. La sfida non è stata semplice, ma abbiamo creato delle strutture talmente uniche, per le persone che abitano il quartiere, che quando qualcuno si trasferisce altrove ci scrive: “Devo trovare il mio Baretto”».
Una bella soddisfazione, ma, come raccontavi anche tu, non sono mancate le difficoltà.
«No, a partire dalla sopravvivenza stessa del progetto: i nostri introiti sono derivanti semplicemente dallo stare sul mercato. Abbiamo sempre chiesto un sostegno diretto, senza mai percepire donazioni o fondi. La difficoltà costante è quindi proprio quella di rimanere in piedi, mettendo al centro del nostro lavoro non il profitto ma le persone. E qui arriviamo all’altra grande difficoltà: quella legata agli inserimenti lavorativi, che se da un lato sono un arricchimento dal punto di vista umano, dall’altro sono un elemento di complessità ulteriore. Spesso il contatto tra le categorie di persone che lavorano con noi è difficile, perché hanno storie e modi di approcciarsi al prossimo molto diversi. È una sfida anche questa: educare alla fiducia reciproca».
Quali progetti avete in programma per il futuro? Contate di rimanere in quartiere o di lavorare anche su altre zone di Torino?
«Abbiamo vinto il bando per la gestione dello spazio ristorativo del Cecchi Point: abbiamo quindi ingrandito il progetto, spostandoci in una zona molto diversa, perché ci interessa proporre il nostro modello di integrazione e di socialità anche a tessuti sociali più complessi. Un’altra iniziativa a cui teniamo molto ci vedrà coinvolti a Rivalta dove, oltre a riprodurre il modello di ristorazione che già sperimentiamo, dovrebbe prendere avvio un laboratorio di agricoltura sociale per lavorare sulle autoproduzioni. Inoltre in questi mesi abbiamo lanciato con successo un servizio di catering».