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17 Aprile 2020

Fashion Revolution: dal web l’appello per una moda etica

Gli impatti sociali e ambientali dell’industria dell’abbigliamento sono ormai insostenibili. È il momento di chiedere ai brand: chi ha fatto i miei vestiti?

Fabiana Re

Fila di vestiti e maglie appesi su espositore - Fashion Revolution

Fashion Revolution punta a una moda etica

Nella settimana dal 20 al 26 aprile dalla rete arriverà un invito: quello di aprire il nostro armadio, guardare con occhio critico le decine di indumenti che vi sono stipate e domandarci: abbiamo davvero bisogno di tutti quei capi? Ma soprattutto, chi li ha confezionati?
L’appello arriva dal movimento globale Fashion Revolution, che da lunedì promuove la Fashion Revolution Week: un’azione di protesta su scala planetaria per chiedere un’industria della moda etica, trasparente, rispettosa dell’ambiente e dei lavoratori e non focalizzata solamente sul profitto.
Tutti possiamo partecipare: è sufficiente indossare un indumento, scattarsi una foto e postarla sui social con gli hashtag #WhoMadeMyClothes? e #WhatsInMyClothes?, taggando il brand che ha prodotto il capo.

LE ORIGINI DEL MOVIMENTO
Il movimento Fashion Revolution è figlio di un evento tragico. Era il 24 aprile 2013 quando il complesso produttivo di Rana Plaza, a Dhaka (Bangladesh) crollò. Oltre 5.000 persone vi lavoravano, cucendo instancabilmente indumenti per le più importanti marche mondiali della moda. Morirono più di 1.100 persone, per lo più giovani donne e migliaia rimasero ferite.
Scorretto parlare di “incidente”, parola che per etimologia porta con sé l’idea dell’accadimento inaspettato. I sopravvissuti raccontarono che l’edificio da tempo mostrava evidenti crepe e confessarono il loro timore nel recarsi ogni giorno in un posto di lavoro così insicuro. Da allora, Fashion Revolution si batte per un’industria della moda sicura e trasparente lungo l’intera filiera di produzione.

UN PROCESSO… POCO SOSTENIBILE
È proprio dall’origine delle filiere che bisogna partire per identificare gli impatti di questa industria che talvolta danneggia gli ecosistemi e sfrutta i lavoratori.
Tutti i materiali alla base dei nostri vestiti portano con sé un ingente bagaglio di problemi ambientali: i più comuni riguardano il poliestere, creato a partire dal petrolio, e il cotone, coltivato impiegando pesticidi in modo massiccio. Durante i processi di lavorazione, i tessili vengono trattati con sostanze chimiche che vengono poi rilasciate nell’ambiente. Passano poi tra le mani di lavoratori che per lo più vivono in povertà, senza un salario minimo né la libertà di negoziare le condizioni lavorative, rese oggi ancora più precarie dall’emergenza Coronavirus.
Secondo il Global Slavery Index, la moda è il secondo settore mondiale a perpetrare la schiavitù moderna. Ma tutto questo accade lontano dagli occhi di noi consumatori occidentali.

GLI IMPATTI DELLA “FAST FASHION”
Quando gli indumenti arrivano sugli scaffali dei negozi e infine nelle nostre case, l’elenco dei problemi è destinato ad allungarsi. La nostra società opulenta con il vizietto del consumismo si presta bene al proliferare della cosiddetta “fast fashion”, la moda usa e getta.
Risultato: si stima che ogni anno vengano prodotti 150 miliardi di nuovi capi; se provate a scrivere questo numero, dovete aggiungere 12 zeri. Compriamo il 60% di vestiti in più rispetto a 15 anni fa, ma li utilizziamo per la metà del tempo prima di spedirli in discarica o negli inceneritori. Ogni volta che laviamo indumenti sintetici, questi rilasciano in acqua microfibre, piccoli pezzi di plastica inferiori ai 5 mm ma pericolosissimi per gli ecosistemi marini e terribilmente resistenti. Secondo i ricercatori, i vestiti sono responsabili di quasi il 35% del totale dell’inquinamento da microplastiche a livello mondiale.

VERSO UNA MODA PIÙ ETICA
Nonostante tutto, i responsabili di Fashion Revolution dichiarano sul loro sito di amare la moda. Semplicemente, la sognano diversa. L’obiettivo non è far sentire le persone colpevoli dei loro acquisti, ma aiutarle a realizzare di avere nelle loro mani il potere di attivare un cambiamento positivo. Acquistare beni è un atto politico e i consumatori possono esercitare pressioni sui marchi della moda, chiedendo maggiore attenzione verso le persone e l’ambiente e trasparenza nel processo produttivo.
I primi segnali incoraggianti si vedono. La quarta edizione del Fashion Transparency Index, pubblicata nel 2019, analizza 200 tra i più grandi marchi di moda sulla base della loro trasparenza e delle politiche sociali e ambientali. Nel 2017 nessun brand aveva ottenuto più del 50% del punteggio, ora invece emerge che sette produttori hanno ottenuto la sufficienza, uno ha superato il 70%, ma la media si attesta a 23%. Ancora poco. Come scrivono i responsabili di Fashion Revolution: “Non possiamo fermarci finché ciascun lavoratore che crea i nostri vestiti sarà visto, ascoltato e pagato in modo appropriato, finché la cultura del consumismo cambierà”.

 

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Categorie: Economia

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