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16 Dicembre 2021
Il ruolo dei media nella narrazione della violenza sulle donne
Il primo di un ciclo di approfondimenti su comunicazione e stereotipi di genere, in questo caso legati ai mezzi di informazione
Aurora Saldi
Raccontare la violenza di genere può essere un mezzo di reale contrasto alle discriminazioni, a patto di non incorrere in scelte linguistiche sbagliate, che possono al contrario rafforzare gli stereotipi e creare grandi danni nella percezione del fenomeno da parte dell’opinione pubblica.
Ne parliamo con Francesca Tampone, dottoressa in Comunicazione Pubblica e Politica con la tesi Le rappresentazioni delle violenze di genere nelle pubblicità sociali italiane. Un’analisi intersezionale, co-autrice del volume Femminicidio. Una lettura tra realtà e rappresentazione (Carocci, 2021) e studiosa di stereotipi di genere all’interno delle narrazioni mediatiche.
Parlando di narrazione giornalistica riguardante femminicidi e violenze sessuale è possibile riscontrare dei modelli ricorrenti?
«Sì, spesso troviamo stereotipi molto pericolosi riguardanti sia chi vive la violenza sulla propria pelle, sia chi la commette. La rappresentazione delle violenze di genere all’interno del discorso mediatico rivela una serie di problematiche. Il fattore alla base di tutto è sempre il patriarcato, in seno al quale nascono sia le violenze di genere che le modalità con cui se ne parla. Ci sono delle dinamiche narrative per cui molto spesso, all’interno dei casi di cronaca, la vittima non è nemmeno rappresentata: si parla molto di più dell’uomo che agisce la violenza, e per di più in modo sbagliato. Spesso infatti i termini della questione sono de-responsabilizzanti: si parla di raptus, di gelosia, di abuso di droghe o alcol, di giustificazioni come “l’ha uccisa perché l’amava troppo”. Alla donna spesso invece vengono attribuite delle responsabilità per la violenza che ha vissuto: ultimamente era stressata e trascurava il marito, indossava determinati indumenti, chiedeva maggiore libertà…».
Qual è l’errore più grave nella narrazione mediatica contemporanea della violenza di genere?
«Sicuramente tra i problemi più evidenti c’è quello della rappresentazione “episodica”, che mostra la violenza come un problema individuale, quando invece è sistemica e strutturale. Tra le immediate conseguenze di questo tipo di scelte linguistiche c’è la creazione di vere e proprie attenuanti, che possono essere usate anche poi durante l’iter giudiziario. Il giornalismo dovrebbe avere poi una funzione sociale: sarebbe utile ad esempio che quando si parla di violenza di genere venissero pubblicati i numeri di emergenza. Se sono una persona vittima di violenza e leggo che chi denuncia non viene ascoltata, quello che capisco è che le strutture che si dovrebbero occupare di contrastare il fenomeno non funzionano. Sarebbe poi importante arricchire l’informazione con delle riflessioni, assenti soprattutto nel giornalismo soprattutto locale».
Esistono poi altre criticità?
«Sì, un altro grande problema riguarda la tematica razziale: spesso, nel narrare i casi in cui sono coinvolte persone originarie di determinate aree geografiche, si attribuiscono le ragioni della violenza all’oppressione della tradizione. Ad esempio, se dico che un uomo picchia la moglie perché non è abbastanza aderente ai principi islamici, sto passando il messaggio che questo comportamento non è frutto del patriarcato, ma dell’Islam: oltre a essere sbagliata, è anche una narrazione razzista e coloniale».
Francesca, come nasce il tuo interesse per questo campo della comunicazione?
«Il mio interesse rispetto allo studio dei gender media studies, in realtà molto puntuale rispetto alle violenze di genere, nasce intanto per aver fatto parte di movimenti che si sono occupati del tema, come Non una di meno. Poi, a livello accademico, perché ho frequentato la laurea magistrale di Comunicazione pubblica e politica a Torino, nel corso della quale sono sempre stata interessata al discorso delle rappresentazioni nel dibattito pubblico in generale, soprattutto legato ai media».