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6 Febbraio 2014

Il folk di Lorenzo Monguzzi sbarca all’Hiroshima

Intervista al cantautore brianzolo ex voce dei Mercanti di Liquore, che domani sera sul palco di via Bossoli presenta “Portavèrta”, il suo primo disco solista

Matteo Fontanone

Lorenzo Monguzzi

Lorenzo Monguzzi, domani sera all’Hiroshima Mon Amour (foto di Ivana Sunjic Porta)

Lorenzo Monguzzi, cantautore brianzolo classe ’67, è conosciuto dai più per essere la voce dei Mercanti di Liquore, gruppo folk dalle forti influenze deandreiane il cui ultimo album risale al lontano 2008. Artista di letture raffinate, Monguzzi non è il solito cantautore: amico da sempre di Marco Paolini, la punta di diamante della cosiddetta prima generazione del teatro di narrazione, con lui ha girato i palchi di tutta Italia portando in scena diversi progetti.
Domani, venerdì 7 febbraio, Monguzzi presenterà in sala Majakovskij all’Hiroshima Mon Amour la sua ultima fatica, prima da solista: “Portavèrta“.

“Portavèrta” è il tuo primo lavoro da solista. Che album si deve aspettare il vecchio fan dei Mercanti di Liquore?
«Una logica prosecuzione di quello che ho fatto con i Mercanti: nel gruppo avevo già un ruolo molto importante, con Portavèrta non ho fatto altro che proseguire sulla stessa strada. Non è una svolta né un cambiamento di direzione, sto affinando sempre più la mia tecnica compositiva. Ho continuato a scrivere le mie canzoni, senza contare che alcune di quelle incise nell’album le suonavo già ai tempi dei Mercanti di Liquore. Insomma, la linea di continuità c’è e si vede; l’unica cosa che è davvero cambiata sono gli interpreti: ho chiamato nuovi musicisti, ho visto finalmente facce nuove. Dopo tanti anni per me è una ventata d’aria fresca. È strano, perché nonostante molto sia rimasto uguale a prima, questo disco per me ha il sapore della novità assoluta».

Cosa vuole significare la “porta aperta” che dà il nome al disco?
«”Portavèrta”, la canzone che dà il nome al disco, nasce come provocazione. È la prima volta che ho scritto una canzone in dialetto, ero stufo di sentire usare la lingua della mia terra per questioni politiche che non condividevo o come mezzo per veicolare cattiveria e ostilità al diverso. Tutto ciò mi era insopportabile, così ho deciso di scivere una canzone per restituire il mio dialetto a tutti: la voce narrante è quella di un brianzolo convintamente libertario, in sostanza si parla di buoni sentimenti. Per quanto è ingenuo, il pezzo suona quasi naif, una sorta di Imagine della Brianza».

Quali sono le influenze artistiche e musicali da cui si sviluppa il disco?
«Io viaggio spesso ad infatuazioni: mi innamoro di qualcuno e, quando scrivo, mi ispiro a lui. Quando la febbre è passata, prendo in mano le mie bozze e le correggo fino a quando non le sento più mie e meno dell’artista da cui mi sono ispirato. La canzone “Si potrebbe” nasce sulla suggestione di Rodari e Calvino, è una riflessione sul giocare divertendosi con la lingua: ammiro il loro arrivare in modo leggero a questioni di un certo peso. Un’altra infatuazione dichiarata è Boris Vian. Gli incoscienti come lui, ma potremmo parlare anche di Woody Guthrie o Jack London, mi affascinano. Boris Vian è un personaggio che già all’inizio del ‘900 era irriverente, parlava della morte in modo moderno e comico, provocava in modo sottilmente gioioso. Ci sono artisti che ti spronano a toglierti dei tabù, dei limiti. Tutti noi abbiamo un pudore, leggere Vian mi fa venire voglia di sbarazzarmi dei miei».

Ancora una volta collabori con l’attore Marco Paolini. Al di là della vostra amicizia, che impressione ti sei fatto del crossover tra musica e teatro?
«La contaminazione è un’occasione di crescita e, per quanto mi riguarda, di emancipazione. Dopo la mia esperienza posso dire che il musicista non sarà mai così libero come su un palco di teatro. Insieme a lui c’è un attore che lo svincola dalle preoccupazioni più stringenti, è lui a occuparsi del pubblico. Sul palcoscenico la musica è slegata da tutto, si possono sperimentare tecniche mai provate, si può osare, si può sbagliare. Lavorare con Marco, per me che sono musicista, è stimolante: nei suoi spettacoli il suono non è mai un sottofondo, è una sfida. A teatro la musica si deve reinventare e per farlo affianca alla narrazione dell’attore una narrazione tutta sua. Attore e musicista raccontano due storie diverse, il pubblico può mescolarle o decidere quella sui cui vale la pena focalizzarsi».

Domani sarai sul palco dell’Hiroshima a Torino: qualche anticipazione?
«Sul palco saremo in quattro, l’atmosfera sarà volutamente scarna e minimale ma accogliente. Il tentativo è sempre quello, raccontare delle storie e si spera far saltellare il pubblico. Anche far ballare è un’esperienza liberatoria, tanto per chi è sul palco quanto per chi ascolta. Il mio concerto è un compromesso tra la testa e il cuore».

Link utili:
Sito ufficiale di Lorenzo Monguzzi
Hiroshima Mon Amour

 

Ascoltate il folk italiano? Andrete a sentire il concerto di Monguzzi?

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Categorie: Musica

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