Home » Cultura » Storia di un giovane sceneggiatore e del suo primo corto

16 Ottobre 2014

Storia di un giovane sceneggiatore e del suo primo corto

Intervista a Francesco Renda, studente torinese della scuola Holden che ha realizzato il suo primo lavoro, The Cage, sui protagonisti di un reality show

M.F.

Il giovane sceneggiatore Francesco Renda

Francesco Renda ha poco più di vent’anni e le idee molto chiare in fatto di cinema. Frequenta la Scuola Holden di Torino, dove studia per diventare sceneggiatore e ha all’attivo un cortometraggio di ventiquattro minuti, The Cage, girato quest’estate in un appartamento della Crocetta.
The Cage è il reality show a cui partecipano i quattro protagonisti, individui problematici costretti a convivere per una settimana in una casa che diventerà ben presto una vera e propria prigione. Gli spazi ristretti e il nervosismo che si instaura quando delle persone sono forzate alla coabitazione diventano così il motore di tutto il corto.
«Un lavoro come il nostro equivale a quello necessario per girare, ad esempio, una puntata di How I Met Your Mother: il numero di scene è circa lo stesso e anche il tempo impiegato dovrebbe essere simile. Di diverso, ci sono soltanto il budget e la struttura organizzativa», dice Francesco. Nella lunga chiacchierata che segue, Renda si esprime con schiettezza riguardo allo stato attuale della settima arte in Italia e riflette sui vari rapporti (qualità/fruibilità, materia/tono) che regolano i prodotti cinematografici. Da queste considerazioni prende spunto per raccontare l’ideazione e lo sviluppo di The Cage, un corto che, pur essendo un esordio, ha il pregio di destare scalpore. Tanto per il suo registro linguistico a dir poco coraggioso, quanto soprattutto per la tendenza a passeggiare di continuo sul confine scivoloso tra politicamente scorretto e provocazione a cielo aperto.

Il tuo sogno è diventare uno sceneggiatore professionista e con The Cage hai posto la prima pietra con un’opera dai toni decisamente accesi.
«Credo che uno dei problemi principali dei film italiani che ho visto in questi anni sia la separazione tono/contenuto: il fatto è che si può parlare di cose serie anche utilizzando un tono ironico, scherzoso, irriverente. In Italia, questo non avviene. Se si ride, lo si fa per prodotti di poco spessore e senza sostanza drammatica come i cinepanettoni, che infatti tendiamo a dimenticarci in fretta. Se si riflette, lo si fa con del cinema d’autore generalmente pretenzioso e impegnato, con il forte rischio che non arrivi a tutti. Per me era importante fare un discorso serio in tono scherzoso, la mia chiave è questa. Negli Stati Uniti sembrano averlo capito già da un po’ ed ecco che sono nate produzioni di qualità assoluta come i Sopranos o Six Feet Under, serie televisive che con il loro humor nero non hanno paura di urtare le sensibilità o di valicare il politically correct».

Puoi dirti soddisfatto? Immagino che gli intoppi e le difficoltà siano stati all’ordine del giorno.
«Piuttosto contento. Il mio obiettivo era crescere, migliorare, fare i conti con me stesso e con le mie capacità. Non so quali siano i fattori che determinano il successo di un corto, so solo che ci vuole molta passione: girare un corto costa, trovare attori disposti a credere nella tua idea e ad andare fino in fondo è difficile, i problemi organizzativi sono molti. Penso alla fatica che abbiamo fatto per riuscire a ottenere in affitto un appartamento al cui interno potessimo girare e ancora non mi spiego i motivi di tanta diffidenza».

Quale accoglienza hai avuto dall’ambiente degli addetti ai lavori e dal pubblico?
«Essendo sempre ipercritico nei confronti di me stesso, mi ha colpito l’euforia che The Cage ha suscitato in parecchi spettatori: in molti mi hanno elogiato e i complimenti sono sempre d’incoraggiamento. Poi sono arrivate le critiche molto dure verso la presunta volgarità del prodotto, dalle parolacce alle scene politicamente scorrette. Per raggiungere il mio scopo a dire il vero non potevo fare altrimenti, visto che parlando di reality show era necessario mantenere una forte aderenza alla materia trattata e alla realtà delle cose. Un altro tipo di riscontro negativo è arrivato da chi mi rimprovera di essere troppo commerciale, mainstream. Mi si accusa, in sostanza, di aver scelto una regia che ricalchi i format dei reality americani più trash come Masterchef e Jersey Shore».

Riprendere dei prodotti beceri per farne la parodia è però una scelta consapevole, da cosa derivano le critiche?
«Mi si è detto che ci sono diversi modi per rappresentare il brutto: uno è di riprodurlo fedelmente, come ho fatto io, l’altro è di parlarne in maniera più simbolica, con toni astratti e contemplativi, come consigliavano loro. A me la spocchia intellettuale nei confronti del reality show non è mai piaciuta, lì si biasima tanto ma nessuno si interroga sulle cause del successo di questi programmi. Per fortuna invece io ho delle cose da dire ma non mi piace parlare a me stesso quindi vorrei arrivare al maggior numero di persone possibile».

Da dove nasce la tua volontà di indagare il mondo dei reality show?
«La domanda è: fino a che punto sei disposto a credere che quella persona che sta piangendo con una telecamera puntata in faccia lo stia facendo per davvero? Dietro a ogni reality show ci sono dei professionisti che decidono come devono andare le cose e montano le immagini tagliandone alcune parti e valorizzandone altre in modo da veicolare un messaggio preciso. Insomma, è una questione morale che mi appassiona molto. Fino a che punto arriva la finzione studiata a tavolino, fino a che punto invece ciò che vedo è vero? Le lacrime sono vere o volute da un copione? Siamo di fronte alla grande rottura del patto tra autore e fruitore che caratterizza l’opera d’arte: se leggo un libro o guardo un film, so che sto entrando in un mondo fittizio costruito da un intelletto creatore e lo accetto fin dal principio; se però scopro lo stesso inganno anche nei reality show, allora le cose cambiano. Si tratta di un fenomeno di massa che non può non interessare perché è sotto gli occhi di tutti: i cinefili che non lo capiscono o che pensano di poter prescindere dall’analisi della società così come ci si presenta oggi contribuiscono con il loro atteggiamento alla morte del cinema».

Prossimi progetti all’orizzonte?
«Il prossimo corto che sto cercando di fare, sempre in compagnia del mio regista Arrigo Verderosa, è un documentario sulla malattia mentale. Nulla di nuovo, in tanti hanno già affrontato lavori di questo tipo; si tratta di semplici interviste con le quali proverò a far parlare loro, i matti, senza filtri né intermediazioni. Da quando hanno chiuso i manicomi, la quotidianità dei malati mentali è un grosso punto interrogativo. Certo, ci sono strutture psichiatriche e reparti appositi negli ospedali: se un individuo affetto da qualche disturbo ha un eccesso è lì che viene ricoverato; dopo un po’ tuttavia il periodo di degenza finisce e lo rimandano a casa. Il fulcro della mia ricerca è questo, vorrei capire di più su cosa succede al matto quando è a casa, immerso nella vita di tutti i giorni. Penso alle famiglie lasciate sole, alle difficoltà enormi in cui incappano sia i malati che i loro cari, alle situazioni tragiche che persone normalissime sono costrette ad affrontare senza neanche più un’illusione di assistenza».

Tag: , , , ,

Categorie: Cultura

Commenti (1)

  1. anna rita piras ha detto:

    Le critiche negative sono le più difficili da sostenere, ma anche le più costruttive. Da lì si parte per creare di nuovo, rivedere, cambiare ed evolversi.Crescere significa ascoltare con umiltà e mettersi di nuovo in gioco con altre proposte.Premetto che io ho letto la tua intervista, ma non ho ancora visto il corto.

Lascia un commento