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27 Marzo 2015

Gli antidoti alla disinformazione sul web

Per Biennale Democrazia, nell’aula magna dell’Università si è parlato di cosa siano le bufale internet, come si diffondano e come possano essere combattute

Matteo Fontanone

Ieri a Biennale Democrazia si è parlato di disinformazione su internet

Tardo pomeriggio di ieri: la nuovissima aula magna dell’Università di Torino, inaugurata da poco nel complesso della Cavalerizza Reale, apre le sue porte a Biennale Democrazia per un dialogo sulla diffusione della disinformazione nei social media. Coordina il giornalista Luca De Biase, relazionano il direttore del Post Luca Sofri e Filippo Menczer, professore di informatica e computer science all’Università dell’Indiana, Stati Uniti.
Come chiave di lettura di tutto l’incontro, De Biase chiede di immaginare «il sistema dell’informazione globale come un normale ecosistema, aperto quindi a ogni sorta di inquinamento». L’altro grande mito da sfatare è quello che vede in internet il maggiore veicolo delle cosiddette bufale: si poteva fare disinformazione anche in passato, senza per forza ricorrere alle tecnologie moderne. Menczer e Sofri affronteranno due diversi aspetti della disinformazione: il primo racconterà dei suoi studi sul cattivo uso dei social media, il secondo porterà esempi negativi dal mondo del giornalismo.

GLI STUDI DI MENCZER SUI MEME
In Indiana, Filippo Menczer studia da anni la diffusione della disinformazione, le classiche bufale che lui chiama genericamente “meme”. Insieme a un team di scienziati e accademici, ha lavorato a una simulazione basata su diversi algoritmi che analizzano e riproducono la diffusione dei tweet-bufala. I risultati delle simulazioni diventano delle vere e proprie rappresentazioni grafiche: guardandole, emergono delle macroscopiche differenze.
I grafici cambiano a seconda dell’argomento dei meme: se la bufala riguarda il cantante Justin Bieber, l’immagine avrà una certa forma e certi nodi, se riguarda Barack Obama avrà un’altra forma e altri nodi. Non tutte le bufale hanno poi uguale diffusione: i grafici di Menczer costituiscono un enorme passo avanti nello studio dei trend, proprio perché permettono di trovare antidoti. «Infatti – dice – siamo riusciti a distinguere una volta per tutte i grasshood, ovvero i movimenti spontanei e le tendenze che nascono dal basso, dagli astroturf, dei boot programmati per fingere di essere individui reali e quindi scatenare a tavolino ondate d’indignazione o manipolare i mercati».

QUANDO LA CASE HISTORY È SULLA TUA PELLE
La storia di Menczer è particolare perché lui in primis è stato vittima di disinformazione: «Lo scorso agosto siamo stati accusati su Twitter di essere parte di un progetto federale attraverso cui Obama spiava gli americani e attaccava gli account dei conservatori. Ovviamente si trattava di un meme in piena regola, ma pochi giorni dopo la cosa esce su Fox News, che urla allo scandalo senza il minimo controllo dei fatti. Nonostante in breve tempo sia stata confermato da più fonti autorevoli che si trattava soltanto di una bufala ai nostri danni – continua – la situazione è ulteriormente peggiorata: diverse personalità politiche abboccano al meme e rendono pubblica la loro indignazione, si arriva addirittura al leader della maggioranza alla camera».
Con il passare delle settimane i caratteri della bufala si ingigantiscono, tanto che qualcuno arriva addirittura a supporre che Menczer avesse il potere, conferitogli da Obama, di cancellare account Twitter a suo piacimento. Tuttora c’è un’indagine in corso.

I PROGETTI FUTURI
Cosa si può trarre da una disavventura come questa? La voglia di ripartire e continuare a fare scienza: «Abbiamo pensato che sarebbe bellissimo riuscire a fare una sorta di fact checking automatico con programmi intelligenti, per prevenire le bufale. Stiamo già lavorando a un sistema basato sulle matrici che paragona dati da Wikipedia». Funzionerà? «In alcuni casi sì, in altri molto meno. È dimostrato che molte persone non sono interessate a controllare la veridicità di un fatto. Se guardiamo il grafico della comunicazione politica su Twitter, notiamo sostanzialmente che i repubblicani comunicano con i repubblicani, i democratici con i democratici. Si tratta di una segregazione spontanea dell’utente: c’è chi le chiama camere di eco, dove uno sente l’eco delle proprie opinioni senza confronto o controllo. Il dato sostanziale è che situazioni di questo tipo alimentano la diffusione delle bufale».

SOFRI E IL RAPPORTO TRA DISINFORMAZIONE E INTERNET
Luca Sofri in Italia è conosciuto per essere il direttore del Post, nonché per fare un uso intelligente e avveduto del web, dato non irrilevante avendo lui esercitato la professione anche “nel mondo di prima”.
I primi minuti del suo intervento sono focalizzati sul riaffermare il discorso con cui aveva esordito De Biase: «Circola molto un pensiero per cui è internet il responsabile della nostra disinformazione. Non è vero, ciò che rende confusa la discussione è che veniamo da un sistema di pensiero per cui esistevano il bar e i giornali. Il primo è il posto delle fuffe, i secondi quello da prendere sul serio. Internet è entrambe le cose – prosegue – sul web si ha la possibilità di fruire dell’informazione certificata e allo stesso tempo di scrivere una bufala, senza più lo stacco tra notizia e chiacchiera».
Sofri si definisce studioso dei media, indaga come e perché circolano le notizie false sui mezzi stampa, soffermandosi sui pochi antidoti del lettore alle bufale o alle inesattezze. Già, perché «quando leggiamo qualcosa su un giornale quotato siamo subito più convinti, neanche immaginiamo di dover fare un controllo dei fatti».

 “LE NOTIZIE CHE NON LO ERANO”
A questo punto ha inizio una lunga ed esilarante carrellata di informazione negativa in salsa italiana.
Il j’accuse contro il sensazionalismo furbetto del bel paese arriva forte e chiaro, d’altronde Sofri di notizie false è diventato un esperto: per sei anni ha curato “Notizie che non lo erano”, una rubrica settimanale sulla Gazzetta dello Sport in cui riportava esempi negativi di giornalismo: effetto comico garantito, tanto che tra poco uscirà un libro con la raccolta dei casi più esilaranti. Succede quindi che, secondo i più quotati media nostrani, a Bush viene rubato l’orologio mentre saluta la folla in Albania, addirittura otto milioni di italiani ricorrono all’ipnosi, il ciclista Vito Taccone verrà ricordato per la sua vittoria contro il rivale Mauro Sormano, che in realtà non è un ciclista ma una salita del Giro di Lombardia. «È anche vero – continua Sofri – che leggiamo molte bufale senza avere gli strumenti per smascherarle; ci sono poi quelle volte in cui la bufala in questione riguarda qualcosa che conosciamo bene e allora ce ne rendiamo subito conto».
Anche Sofri, così come prima di lui ha fatto Menczer, conclude con una riflessione che lascia l’amaro in bocca: «Il tema dei titoli è rilevantissimo. La nostra comprensione del mondo non viene dai giornali ma dai suoi titoli. Già, perché la maggior parte delle informazioni che assumiamo arriva proprio dalla lettura dei titoli, non degli articoli. E in Italia, purtroppo, ci si è dimenticati della corrispondenza tra titolo e testo, si pensa solo a rendere attraente la notizia».

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Categorie: Tecnologie

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