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29 Marzo 2015

BD: donne contro la ‘ndrangheta

A Biennale Democrazia una riflessione sul ruolo femminile nella lotta alla mafia calabrese attraverso le storie coraggiose di Lea Garofalo e Maria Stefanelli

Antonella Capalbi


«Come mi capita di dire da qualche tempo ormai, è un fatto che l’antimafia sia donna». Sono queste le parole scelte da Nando Dalla Chiesa per l’incipit del suo intervento introduttivo al dibattito tenutosi ieri al Circolo dei Lettori sul tema della lotta alla ‘ndrangheta di matrice femminile organizzato da Unilibera.
Docente di Sociologia della criminalità organizzata presso l’Università degli Studi di Milano e figlio di una delle vittime di quella stessa criminalità, il Generale Dalla Chiesa, nel corso del suo intervento ha a lungo sottolineato il ruolo sempre più preponderante della parte femminile della società nella lotta alle mafie: una lotta che per contesto e tempo di appartenenza si è collocata sempre sul versante maschile ma che, se è vero che è stata condotta da giudici, pm e questori, è stata anche il prodotto di un’attività di ribellione silenziosa ma non meno importante a opera delle insegnanti nelle scuole, delle studentesse e ricercatrici sempre più interessate al tema nelle università e, naturalmente, di quelle figure femminili chiave che hanno deciso di uscire dal contesto mafioso di riferimento.
Sono state queste le storie protagoniste dell’incontro in cui Marika Demaria e Manuela Mareso, due autrici con provenienza e formazione diversificata, hanno tratteggiato le vite di due donne distanti per certi aspetti ma accomunate da un unico incoraggiante, e allo stesso tempo terribile, comune denominatore: la decisione di testimoniare contro il mondo di sottomissione e criminalità di cui sono state prigioniere, firmandosi di fatto la condanna a una vita sempre più somigliante a una fuga.

LA SCELTA DI LEA
La prima storia, oltre che tra le pagine della narrazione letteraria, è quella portata all’attenzione del grande pubblico da Marika Demaria nel suo “La scelta di Lea”, libro-inchiesta sulle tappe della persecuzione subita da Lea Garofoalo e la giovane figlia Denise dopo la scelta di allontanarsi dall’ambiente criminale di appartenenza in Calabria, conclusasi con il cruento omicidio della protagonista da parte del marito, boss mafioso e carnefice, perpetuato con la combustione dei resti della donna dispersi all’interno della campagna brianzola.
A detta stessa dell’autrice, è una storia di dettagli cruenti e di violenza carnale, ma anche di solitudine, fragilità e allontanamento: quegli stessi dettagli che è bene portare all’attenzione del grande pubblico perché ci si renda conto di quanto coraggio può e deve accompagnare una scelta di non sottomissione a logiche atroci ma percepite come comuni nel contesto di appartenenza.
La storia di Lea Garofalo , come lo stesso Nando dalla Chiesa ha sottolineato, è una storia milanese perché legata alla vana speranza che in un ambiente lontano potesse esserci profumo di libertà e non il puzzo di una prigionia conclusasi con la nauseante conferma che da origini del genere sia difficile uscire, perché la ‘ndrangheta non dimentica.

“LORO MI CERCANO ANCORA”
«La ‘ndrangheta non dimentica e loro mi cercano ancora»: sono queste le parole utilizzate da Manuela Mareso nel suo “Loro mi cercano ancora”, versione in prosa della vicenda di Maria Stefanelli, altra figura femminile che dopo anni di soprusi, sottomissioni e violenze, ha trovato la disperazione necessaria per tirarsi fuori da un contesto che continua a perseguitarla in quanto testimone sotto protezione nel processo Minotauro, procedimento giudiziario ancora in corso sull’infiltrazione mafiosa in Piemonte.
Qui la partita tra cosche si gioca interamente al nord e non c’è spazio per quella speranza di fuga paventata nella storia di Lea Garofalo, perché è una vicenda di criminalità organizzata di provenienza ancora calabrese ma totalmente strutturata nella nostra regione che, stando all’opinione dell’autrice, oltre ad avere alcuni tratti sconvolgenti, riesce a risultare più volte surreale e ha permesso di mettere in luce le nuove dinamiche organizzative della struttura mafiosa nel settentrione.
In una storia che parte da abusi in ambito familiare e finisce nell’anonimato di chi in una vita sotto copertura ha comunque trovato il paradiso rispetto all’inferno di provenienza, Manuela Mareso ha tratteggiato con onestà e senza ipocrisia lo snocciolarsi di vite spesso meno prevedibili di quello che si immagina, in un contesto caratterizzato non solo da soprusi, potere e forza, ma anche da tanta fragilità, insicurezza e paura sia sul versante maschile che su quello femminile: quella stessa paura che è stata compagna terribile delle protagoniste delle due vicende narrate e che solo le diverse forme di solidarietà e sensibilizzazione messe in atto da una parte della società, femminile e non, possono contribuire ad attutire.

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Categorie: Cultura

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