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30 Aprile 2015

Scienz(i)a.TO: ologrammi 3D come in Star Wars

Nella nostra rubrica scientifica questo mese parliamo la luce riflessa da altri pianeti, tecnologia alla Guerre Stellari e diesel fatto con acqua e CO2

Andrea Di Salvo

Presto gli ologrammi dei film di fantascienza potrebbero diventare realtà

Bentornati allo spazio che Digi.TO dedica ogni mese alle ultime scoperte o curiosità in fatto di scienza e tecnologia.

OLOGRAMMI 3D COME IN STAR WARS
I film di fantascienza come Guerre Stellari ci hanno abituato da tanto tempo a vedere sullo schermo tecnologie sorprendenti: spade laser, astronavi, teletrasporto e ologrammi in 3D. A quanto pare, tra non molto dobbiamo aspettarci di vedere per davvero scene come quella famosa del messaggio olografico del droide R2-D2.
L’olografia non è una tecnica recente. Sviluppata dal fisico ungherese Dennis Gabor (Premio Nobel per la Fisica nel 1971), venne abbandonata fino alla realizzazione delle prime sorgenti di luce coerente, i laser. Con l’avvento di queste, si sviluppò concretamente la possibilità di memorizzare informazioni in volumi e non in superfici bidimensionali, come i dvd.
In un recente articoloHaoran Ren del Centre for Micro-Photonics (Swinburne University of Technology), afferma di avere combinato la tecnica olografica con le proprietà del grafene – fogli composti da uno strato atomico di carbonio impilati gli uni sugli altri – ottenendo dei display con un ampio angolo visivo e full-color. Per una ricostruzione vivida dell’oggetto in 3D occorrono dei pixel nanometrici e il controllo su un particolare processo legato al grafene: questo ha permesso di ottenere schermi con un angolo di 52 gradi, ovvero di un ordine di grandezza superiore rispetto agli attuali display olografici in 3D disponibili, limitati a pochi gradi. Ora non resta che aumentare le dimensioni degli schermi e si pensa che possa avvenire entro cinque anni, con campi di applicazione che vanno dai dispositivi militari, all’intrattenimento, all’educazione e fino alle diagnosi mediche.

LUCE DI UN PIANETA EXTRASOLARE
Gli astronomi hanno trovato un modo per analizzare la luce proveniente dalle altre stelle e separare l’eventuale componente riflessa proveniente da un pianeta in orbita. Ciò è stato possibile sfruttando l’effetto Doppler di cui facciamo esperienza quotidianamente: se siamo per strada e un’ambulanza si sta avvicinando alla nostra posizione, percepiamo un suono acuto; viceversa, quando l’ambulanza si allontana da noi, sentiamo un suono grave.
La medesima cosa succede se siamo noi a spostarci rispetto alla sorgente acustica e lo stesso effetto interessa la luce in arrivo dalle altre stelle: se queste si stanno avvicinando, allora avremo uno spostamento delle righe spettrali (vere e proprie righe, usate come riferimento, dovute a fenomeni di assorbimento o emissione da parte di atomi) verso il colore blu, cioè a frequenze più alte rispetto all’emissione; se le stelle si stanno allontanando rispetto a noi, lo spostamento sarà verso il rosso, quindi a frequenze più basse. Questo rimane comunque un effetto: non vi è una reale alterazione delle frequenze nel sistema di riferimento della sorgente.
Se ora consideriamo un pianeta extrasolare in orbita intorno alla propria stella, ecco che possiamo accostarlo all’ambulanza di prima. La sua riflessione della luce ricevuta dalla stella è soggetta all’effetto Doppler e Jorge Martins dell’Università di Porto (Portogallo) ha pensato di ricercare tracce di questi spostamenti negli spettri stellari. Questo lavoro non è affatto facile, ma può contare su due segni distintivi: si avranno sempre coppie di spostamenti rosso e blu perché il pianeta, nella sua orbita, si allontanerà e avvicinerà rispetto a noi osservatori.
La nuova tecnica non ha solo ricevuto conferma sperimentale dall’analisi degli spettri di 51 Pegasi b, il primo pianeta extrasolare scoperto vent’anni fa, ma si è addirittura spinta oltre, trovandone l’inclinazione orbitale rispetto alla Terra – che prima eravamo solo in grado di stimare – e la sua massa (0.4-0.52 volte quella di Giove, la metà di quella stimata alla sua scoperta). Il database dei pianeti extrasolari potrebbe essere passato al setaccio di questo nuovo strumento d’indagine.

DIESEL DALL’ACQUA E DALLA CO2
La scorsa settimana l’Audi ha annunciato di essere in grado di produrre e-diesel, cioè diesel contenente etanolo, a partire solo dall’acqua e dall’anidride carbonica usando energie rinnovabili. L’aspetto più importante di tale processo risiede nel fatto di creare un carburante teoricamente a impatto zero per quanto riguarda la produzione di anidride carbonica e che può essere utilizzato nei veicoli attuali senza necessità di un ulteriore raffinamento.
Attenzione però: non si tratta di una nuova fonte energetica, ma di un modo di immagazzinare l’energia – in questo caso quella proveniente dalle fonti rinnovabili – e quindi eventualmente di trasportarla in giro. È una differenza sostanziale che se non sia ha ben presente conduce a confusione ed errori molto comuni, specie quando si parla delle ben più famose macchine a idrogeno.
Il processo comunque inizia proprio da fonti energetiche rinnovabili che sono usate per riscaldare dell’acqua a una temperatura superiore agli 800 °C. Il flusso di vapore così ottenuto viene scisso nelle sue componenti di base, cioè acqua e idrogeno, attraverso il processo dell’elettrolisi, quindi facendo passare una corrente elettrica continua attraverso due elettrodi immersi nel fluido. Successivamente l’idrogeno viene rimosso e mischiato con anidride carbonica in condizioni di alta temperatura e alta pressione. Si crea così un idrocarburo fluido chiamato “blue crude”, che brucia senza rilasciare particolato carbonioso.
La compagnia Sunfire, produttrice di questo combustibile, afferma che l’intero processo ha un’efficienza del 70%. Sebbene il risultato complessivo dell’intera catena produttiva possa sembrare sorprendente, il processo usato è noto dal 1920 sotto il nome di processo di Fischer-Tropsch. L’Audi non nasconde l’assenza di novità in questa tecnica, ma afferma che il loro modo di produzione nella fase elettrolitica, effettuato ad alte temperature, aumenta l’efficienza del processo con la possibilità di recuperare il calore di scarto.
Se non sarà il carburante del futuro, si aprono comunque prospettive interessanti nella conversione delle energie rinnovabili in carburante sintetico per il loro immagazzinamento a lungo termine quando si ha un eccesso di produzione.

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Categorie: Tecnologie

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