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16 Giugno 2015

Calcio: un gioco da ragazze

Dopo la polemica del mese scorso, una chiacchierata con quattro giovani atlete di questo sport: Martina Rosucci, Camelia Ceasar, Elena Linari e Aurora Dellera

Veronica Minniti

Martina Rosucci con la Coppa Italia vinta quest’anno con il Brescia

«Basta, non si può continuare a dar soldi a queste quattro lesbiche»: così l’oramai ex presidente della Lega Nazionale Dilettanti Felice Belloli aveva liquidato qualche settimana fa il mondo del calcio femminile. La figuraccia ha fatto il giro del mondo: ne hanno parlato l’Equipe in Francia, la Bild in Germania, Marca in Spagna, Guardian, Times e Bbc in Gran Bretagna, quotidiani sportivi statunitensi e russi, addirittura la stampa indonesiana. La protesta delle giocatrici italiane non si è fatta attendere: Il 30 maggio tantissime calciatrici sono scese in piazza per manifestare a Torino, Roma, Napoli e in altre dieci città.
La vicenda ha acceso i riflettori su una realtà poco conosciuta, un calcio praticato da ragazze che lavorano e si allenano duramente – spesso senza percepire compenso – e che adesso vogliono lottare per sensibilizzare il calcio maschile e per creare una lega femminile indipendente e professionista sotto l’egida della FIGC, chiedendo dignità, parità di diritti e il riconoscimento di uno status, quello del professionismo, che vede l’Italia molto indietro rispetto al calcio femminile europeo e mondiale.
Abbiamo chiacchierato con alcune di loro per farci raccontare qualcosa su questo sport: Martina Rosucci (23 anni), Camelia Ceasar (17), Elena Linari (21), tutte e tre calciatrici del Brescia, e Aurora Dellera (18), giocatrice del Verona.

NASCITA DI UNA PASSIONE
Per tutte e quattro la passione per il calcio è iniziata molto presto: «Da piccola andavo a vedere giocare i miei cugini e un giorno ho deciso di provare anch’io – racconta Camelia – ho iniziato come centrocampista e dopo l’infortunio di un compagno mi sono offerta come portiere. Oggi gioco in serie A e faccio parte della Nazionale della Romania».
Anche Martina – torinese di origine, centrocampista della nazionale e fresca vincitrice della Coppa Italia – si è avvicinata al pallone grazie alla famiglia: «Vedendo giocare il mio fratello gemello mi sono appassionata , finché il suo allenatore non ha proposto alla società e ai miei genitori di farmi fare un provino: da lì è iniziata la mia carriera. Avevo 8 anni».
Una storia simile a quella di Elena, difensore azzurro di Fiesole: «A 5 anni nuotavo, però ho iniziato ad appassionarmi al calcio. Amavo stare interi pomeriggi con gli amici al parco, a fare con loro partitelle per puro divertimento, a sporcarmi e a buttarmi ovunque. Un giorno un mio amico mi chiese se avessi voluto partecipare ai provini della società di calcio vicino a casa mia. Accettai l’invito, partecipai ai provini senza che i miei genitori mi ostacolassero e venni presa dalla società. A quel punto – continua – ovviamente dovetti decidere per uno dei due sport e la decisione fu alquanto semplice: il pallone ormai mi aveva conquistato il cuore».
«Avevo solo 4 anni quando giocavo con mio papà e mio fratello in giardino la sera: così ho iniziato ad appassionarmi» racconta Aurora, originaria di Negrar, vicino a Verona.

“IL CALCIO NON È UNO SPORT PER SIGNORINE”
Tutte e quattro non hanno dubbi sul fatto che sia un errore considerare questo sport come una “cosa da maschi”, anche se è un pensiero molto comune: «Spesso sono i genitori a frenare le bambine che vorrebbero avvicinarsi al calcio, perché pensano che sia più “consono” praticare danza o pallavolo», racconta Elena.
«Oltretutto non si dovrebbe aver paura di perdere la propria femminilità giocando a calcio, perché non è assolutamente così – sottolinea Martina – si può essere belle donne e praticare questo sport».
«Mi è capitato spesso – aggiunge Aurora – di sentirmi dire “che bello, giochi a calcio! Anche a me sarebbe piaciuto”, e allora io chiedo “perché non lo hai fatto?”. Penso che molte siano frenate dai pregiudizi. So di alcuni genitori che non hanno permesso alle figlie di giocare a calcio perché avevano paura che diventassero lesbiche. I primi commenti dei miei compagni di classe quando hanno saputo che giocavo sono stati : ma vi lavate insieme? Credo che molti abbiano difficoltà a vederci come delle giocatrici di questo sport».

LA FRASE INCRIMINATA
Riguardo l’infelice frase di Belloli, le ragazze sono ovviamente molto critiche: per Camelia si tratta di un’affermazione molto forte che colpisce non solo le calciatrici, ma tutte le donne: «È diffamante e scorretta, volta quasi a ghettizzare un ambiente come quello calcistico femminile». Per Aurora l’affermazione di Belloli rappresenta perfettamente l’idea distorta che la nostra società si è fatta del calcio femminile. «E’ una grande mancanza di rispetto nei nostri confronti – commenta Elena – ed è anche molto amareggiante che nel 2015 ci siano ancora questi problemi relativi alle scelte sessuali di una persona. Inoltre, queste non dovrebbero in alcun modo essere collegate alle prestazioni sportive di qualsiasi atleta, sia esso uomo o donna, calciatore o calciatrice, nuotatore o nuotatrice».
Un po’ diversa è l’opinione di Martina: «Ritengo sia stato dato fin troppo risalto a questo aspetto della vicenda. La frase è gravissima sotto molteplici aspetti, però noi calciatrici non possiamo parlare solo di questo perché altrimenti quel poco di spazio che ci viene concesso finisce tutto nel parlare di orientamenti sessuali generalizzati, quando la realtà delle cose e i nostri bisogni come movimenti sono ben diversi».

UN PROBLEMA NON SOLO DI VISIBILITÀ
Quando chiediamo loro perché il calcio femminile sia così poco conosciuto rispetto a quello maschile, le risposte sono state diverse: per Camelia il problema principale è la visibilità mediatica: «In fondo è questo che fa andare avanti il mondo del calcio maschile: le sponsorizzazioni. Nel nostro caso potremmo sfruttarle non per pagare ingaggi, ma per costruire strutture adeguate e creare veri settori giovanili. A quel punto sarebbe facile colmare il gap tecnico con le calciatrici delle altre nazioni».
«Il problema è che in Italia non c’è una mentalità sportiva – aggiunge Martina – esiste solo il calcio maschile. Infatti anche tutti gli altri sport nel nostro paese, a differenza del resto del mondo, faticano a trovare il giusto risalto» dice Martina.
Il discorso è condiviso anche da Elena, che aggiunge: «Siamo forse l’unica nazione che concentra quasi tutta l’attenzione mediatica sul calcio degli uomini e ritengo che questo sia un problema di cultura e di poca apertura mentale e culturale. Forse di fondo la paura che altri sport, come il calcio femminile, possano portar via parte dell’attenzione e dei soldi che vengono destinati al calcio maschile. Dobbiamo cambiar rotta. E proprio per questo ci tengo a ringraziare l’ex presidente Belloli per la sua frase – continua – che ha fatto sì che per la prima volta l’Associazione Italiana Calciatori, quella degli Allenatori di Calcio e le società si siano unite per cercare di portare questo movimento al livello che merita. Stiamo cercando di creare una lega autonoma che ci permetterebbe di fare tanti passi in avanti rispetto agli ultimi anni».

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Categorie: Sport

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