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12 Gennaio 2016

Scienz(i)a.TO: la scienza della Forza

Cerchiamo di capire quanto siano verosimili spade laser, raggi traenti e ologrammi nell’ultimo film di Star Wars

Andrea Di Salvo

Le spade laser come in Star Wars non possono esistere nella realtà

Dopo un lunga pausa, riprende la rubrica Scienz(i)a.TO e sulla falsariga di un nostro articolo precedente torniamo a scoprire su quali basi scientifiche – o fantasiose – si poggia un altro film: il settimo episodio della saga di Star Wars. Se non avete ancora visto il film, va da sé che seguiranno degli spoiler, quindi fate attenzione.

LE SPADE LASER
Oggetto-simbolo della saga, le spade laser sono l’elegante e al tempo stesso temibile arma di Jedi e Sith: capaci di ridurre l’avversario letteralmente in pezzi, sono anche in grado di parare i colpi dei nemici, sia che siano dotati di un’altra spada laser che di un’arma da tiro. In occasione dell’uscita del film, è comparso su Scientific American un articolo che è un po’ una “ricetta” per costruirsene una, almeno teoricamente. Prima di tutto, e a dispetto del nome, è poco plausibile che una spada laser sia fatta con dei laser: non riuscirebbe a riprodurre nessuno dei diversi effetti presenti nei film, a partire dalla sua lunghezza (essendo un raggio di luce, sarebbe indefinita, mentre una spada standard è limitata a circa un metro nella saga), e non potrebbe scontrarsi con altre spade o essere così luminosa.
D’altra parte, in lingua originale è chiamata lightsaber, sciabola di luce, quindi il laser non è l’unica via. Più realistico sarebbe invece l’uso del plasma, uno stato della materia in cui un gas è ionizzato e ciò significa che gli elettroni sono stati strappati dai rispettivi atomi. Questo gas è globalmente neutro (per via del bilanciamento tra cariche di segno opposto), ma fortemente sensibile ai campi elettromagnetici. Sfruttando questa caratteristica, si potrebbe far assumere al gas la caratteristica forma di una spada laser con un opportuno campo di contenimento magnetico – e qui si capisce che dalla forma grezza della sua spada Kylo Ren ha ancora da affinare tale tecnica, anche se le basi ci sono… Una volta fatto ciò, comunque, essendo il plasma elettricamente conduttivo, sarebbe possibile convogliare una grande quantità di corrente elettrica verso un obbiettivo, scaldandolo e sciogliendolo – proprio come fece Qui-Gon Jinn quando tentò di aprirsi un varco in una porta blindata sull’astronave della Federazione dei Mercanti, nel I episodio. Ovviamente sarebbe necessaria un’adeguata fonte energetica per alimentare la spada, dal momento che un processo come quello appena descritto è estremamente dispendioso in termini di energia. Come tutto questo si possa infine miniaturizzare in una pratica elsa di una ventina di centimetri, fornendo al contempo un’adeguata protezione all’aspirante Jedi o Sith, però, è decisamente un altro discorso.

IL RAGGIO TRAENTE
Nell’ultimo capitolo della saga Finn e Rey vengono catturati da un raggio traente mentre sono a bordo del Millennium Falcon. A sequestrare l’astronave “che ha fatto la rotta di Kessel in meno di 12 parsec” è Han Solo in persona che ne rientra in possesso dopo anni insieme a Chewbecca. Eppure né lui né il wookie spiegano il meccanismo alla base della cattura.
Qui sulla Terra c’è chi si deve essere ispirato a scene di fantascienza come questa per sviluppare un vero raggio traente e ci è riuscito. Un team di ricerca delle università di Bristol e del Sussex ne hanno realizzato uno sfruttando le onde ultrasoniche ad alta intensità. Anche se al momento il dispositivo ha un raggio d’azione dell’ordine di alcuni centimetri, è capace di spostare e manipolare oggetti delle dimensioni del millimetro e, ovviamente, non funziona nello spazio – dal momento che nel vuoto non si possono propagare le onde sonore – i risultati sono impressionanti. Nell’articolo pubblicato su Nature Communications, i ricercatori spiegano che hanno usato una matrice di emittori di ultrasuoni per creare delle vere e proprie trappole per gli oggetti da mantenere in sospensione o spostare. Con l’introduzione di ologrammi acustici, il team è riuscito a generare rapidamente tali trappole – come delle “tasche” generate nello spazio dall’azione combinata dei vari emittori – adatte alle manipolazioni dei campioni. Naturalmente il lavoro non mira a stupire, ma a essere sfruttato in diversi ambiti, come per esempio il controllo di particelle per applicazioni nel rilascio di farmaci in zone specifiche all’interno del corpo umano o di micro-macchine che non interferiscano con la risonanza magnetica.
Un’ultima precisazione: il vanto di Han Solo sulla velocità del Millennium Falcon, in grado di fare la rotta di Kessel in 12 parsec, non ha senso. Anzi, è proprio sbagliato: il parsec è un’unità di misura della distanza, non del tempo.

GLI OLOGRAMMI
Riesumando un altro articolo di questa rubrica, parliamo infine di ologrammi, di quelli che si possono vedere con gli occhi. Nel corso della saga capiamo che tale tecnologia è abbondantemente diffusa nella galassia: la principessa Leia affida un messaggio olografico a R2-D2, Chewbecca gioca con lo stesso droide a una specie di scacchi in 3D e anche nell’ultimo episodio gli ologrammi sono il mezzo di comunicazione preferito tra interlocutori su pianeti diversi, come tra Kylo Ren e il Leader Supremo Snooke.
Anche sulla Terra l’olografia non è una tecnica recente. Sviluppata dal fisico ungherese Dennis Gabor (Premio Nobel per la Fisica nel 1971), venne abbandonata fino alla realizzazione delle prime sorgenti di luce coerente, i laser. Con l’avvento di queste, si sviluppò concretamente la possibilità di memorizzare informazioni in volumi – e non in superfici bidimensionali, come i DVD.
In un articolo, Haoran Ren del Centre for Micro-Photonics (che non ha niente a che vedere con l’Ordine dei Cavalieri di Ren del film…) afferma di avere combinato la tecnica olografica con le proprietà del grafene – fogli composti da uno strato atomico di carbonio impilati gli uni sugli altri – ottenendo dei display con un ampio angolo visivo e full-color. Per una ricostruzione vivida dell’oggetto in 3D occorrono dei pixel nanometrici e il controllo su un particolare processo legato al grafene: questo ha permesso di ottenere schermi con un angolo di 52 gradi, ovvero di un ordine di grandezza superiore rispetto agli attuali display olografici in 3D disponibili, limitati a pochi gradi. Attualmente si sta lavorando per aumentare le dimensioni degli schermi e si pensa che possa avvenire entro cinque anni, con campi di applicazione che vanno dai dispositivi militari, all’intrattenimento, all’educazione e fino alle diagnosi mediche. E se mai svilupperanno degli scacchi olografici, la strategia da adottare sarà sempre e solo una: lasciare vincere il wookie!

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Categorie: Tecnologie

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