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16 Febbraio 2016

Parkour e capoeira, ponti fra culture

Sabato alla Casa del Quartiere un documentario che racconta la ricerca della propria identità da parte di alcuni ragazzi stranieri attraverso queste discipline corporee

Stella Giorgio

Un'immagine del documentario "Climbing Walls, Making Bridges"

Un’immagine del documentario “Climbing Walls, Making Bridges”

Otto giovani con un vissuto migratorio, attori di un processo di negoziazione della propria identità che passa attraverso il parkour e la capoeira, praticate in alcuni luoghi simbolo di Torino (Parco Dora, Lingotto, Barriera di Milano). Sono gli ingredienti del documentario Climbing Walls Making Bridges di Nicola De Martini Ugolotti, Shahrad Behzadi e Andrea Fantino, che sarà presentato sabato 20 febbraio alle 21 alla Casa del Quartiere di San Salvario.

ESSERCI CON IL CORPO
La costruzione di un senso di socialità e gli spazi in cui esso si forma sono elementi indissolubili, centrali nel documentario. L’insieme di stati psico-emozionali vissuti durante gli allenamenti, immaginazione spaziale e il senso di comunione tra i ragazzi che si allenano insieme, non solo formano il giovane atleta nella sua abilità di attraversare gli spazi urbani, ma permettono anche un lavoro di ridefinizione di sé, centrato su un rapporto denso e intimo con i luoghi frequentati.
Parkour e capoeira diventano anche mezzi per affermare autonomamente la propria presenza sul territorio e per respingere l’immagine stereotipata del soggetto immigrato, visto spesso solo come un individuo da contenere in un clima di costante emergenza, oppure portatore di diversità difese ciecamente. Dunque è possibile stare al mondo con il corpo, tanto quanto con la mente. Con il corpo si afferma la propria presenza e ci si pone domande rispetto alla propria condizione e alla relazione con gli altri. Il corpo, infine, viene inteso come strumento per conoscere i propri limiti e contenerli.

SCAVALCANDO MURI
Climbing Walls Making Bridges nasce dall’esperienza del giovane antropologo Nicola De Martini Ugolotti al centro Fanon di Torino e come educatore di strada con il progetto Una finestra sulla piazza, da cui è nata l’esigenza di approfondire non solo gli aspetti scientifici, ma anche le pratiche quotidiane messe in atto da questi giovani per definire la loro identità, come ci spiega rispondendo alle nostre domande.

Come hanno reagito i ragazzi alle riprese?
«La reazione dei protagonisti è stata buona. È emersa l’urgenza di prendere parola e di raccontarsi autonomamente per andare oltre l’immagine di ragazzi devianti e indesiderati. A questo si è aggiunto l’interesse rispetto alle pratiche di ripresa e montaggio: molti ragazzi infatti erano già attivi nella produzione di video, non solo inerenti a parkour e capoeira e durante le riprese hanno dimostrato forte curiosità anche in questo aspetto».

Quali sono gli scopi del documentario?
«L’obiettivo non è quello di dare risposte ma di porre domande al numero più ampio di persone, rispetto a temi che non toccano solo i protagonisti: la negoziazione della propria identità attraverso il corpo, l’abitazione dello spazio pubblico, così come la costruzione di una società “multiculturale”. Vorremmo diffondere il documentario, non solo a livello accademico, ma anche in festival e proiezioni pubbliche, creando di volta in volta i contatti per successive proiezioni. La realizzazione è stata un processo collettivo, noi siamo stati i facilitatori, ma i veri e propri protagonisti sono i ragazzi: a parlare saranno loro».

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Categorie: Intercultura

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