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6 Luglio 2016

Hackability, la tecnologia per la disabilità

Il primo di tre articoli su un progetto torinese che lega le potenzialità di elettronica, software e stampanti 3D alle esigenze di chi deve far fronte a problemi quotidiani

Andrea Di Salvo

Du' Spaghi, la speciale forchetta che arrotola la pasta

Du’ spaghi, la forchetta che arrotola la pasta

Il mondo della disabilità è spesso un mondo di difficoltà vissute ogni giorno, spesso ignorate da chi disabile non lo è. Per questo a partire da oggi vi proponiamo un focus sul tema, diviso in tre articoli distinti, utilizzando come filo d’Arianna l’evoluzione di un progetto torinese, Hackability. Si tratta di un format nato l’anno scorso facendo incontrare gruppi di persone disabili e maker – ovvero appassionati di elettronica, software e stampanti 3D.
Da quei lavori sono nate diverse soluzioni, come Mando, un telecomando in grado di governare tutti gli elettrodomestici di una casa in modo semplice o Du’ spaghi, una speciale forchetta con la punta meccanizzata per facilitare l’avvolgimento della pasta. Oltre a essere caratterizzati da nomi originali, queste soluzioni sono tutte disponibili in open source, ossia chiunque può scaricarne i progetti e realizzarle per conto proprio.
Il format è stato riproposto agli studenti dell’istituto tecnico Pininfarina e infine è approdato al Politecnico di Torino con il corso Tecnologie per la disabilità, tenuto dal professor Paolo Prinetto.
Questo esperimento è stato realizzato dal Fablab di Torino con le cooperative sociali Kairos e Mestieri su un’idea di Enrico Bassi e Carlo Boccazzi Varotto, il portavoce del progetto, che si occupa di innovazione sociale seguendo la nascita di startup tecnologiche che abbiano un impatto in questo campo.

Come è nato Hackability e qual è stato il suo sviluppo?
«L’idea progettuale nasce diversi anni fa attraverso una grossa ricerca sulla disabilità e sul design. Mi sono reso conto che le persone disabili avevano bisogno di cose che non esistevano, di oggetti che in qualche modo si producevano da soli o che, se già in commercio, hackeravano. Da qui l’idea, una volta incontrato Enrico Bassi che all’epoca lavorava per il Fablab di Torino, di provare a costruire un incontro tra disabili e maker. Nel 2012 il tema non era affatto scontato, poi ci siamo immaginati, con tutta una serie di persone, di costruire un format. Non un gruppo di lavoro, non un laboratorio perché ci pareva che i progetti in circolazione fossero pochi e bisognasse fare inseminazione culturale sul tema. Hackability è nato così: è un format riproducibile che offre una metodologia e ha l’obbiettivo di aumentare il numero di progetti in open source pensati per persone con disabilità, per e con persone con disabilità».

Nella fase della costruzione dei prototipi, come procedeva il rapporto tra maker e persone disabili?
«La metodologia di Hackability prevede che ci sia una specie di storytelling incrociato, per cui da un lato i disabili raccontano delle idee progettuali, dall’altro i maker che aderiscono al progetto raccontano quello che sanno fare. L’abilità sta poi nel costruire in modo molto rapido dei gruppi di lavoro che messi assieme lavorino di concerto. Quello che succede dopo è molto variabile: a fine dell’Hackability ci sono gruppi che continuano a lavorare insieme perché si sono costruiti dei rapporti, delle amicizie, e ce ne sono altri che invece si sciolgono, non c’è una regola. Mediamente quello che sta succedendo è che spesso chi si è occupato di disabilità poi in qualche modo continua perché ha costruito un rapporto con la persona».

Come avete coinvolto i partecipanti?
«Il primo Hackability è stato fatto con una call pubblica, sia per maker che per disabili. Poi in realtà era stata molto costruita, nel senso che prima c’è stato un lungo lavoro di team building, di rapporto con le persone, quindi in realtà molti sapevamo che avrebbero aderito, però alcuni sono arrivati da soli. Nel secondo caso abbiamo lavorato presso l’istituto tecnico Pininfarina. Con il Politecnico invece è stato un misto, perché si erano iscritti 120 ragazzi e Ludovico Russo, uno degli assistenti di Prinetto, ne ha selezionati 20. Ovviamente l’essere arrivati al Politecnico è un grande risultato, un riconoscimento per la metodologia».

E come siete approdati al Politecnico?
«Ludovico Russo e io ci siamo conosciuti a un convegno l’anno scorso in cui lui presentava la sua startup che si chiama Looqui. Ci siamo messi a parlare di queste cose e a Ludovico e a Giuseppe Airò, un altro ingegnere informatico di Looqui, era piaciuta tantissimo l’idea perché dava ai ragazzi l’opportunità di lavorare su casi concreti, permettendo loro di sperimentare veramente la realizzazione di prototipi. Così hanno proposto la cosa a Prinetto che ha risposto entusiasticamente e da lì siamo partiti».

Mercoledì prossimo la seconda parte del nostro focus su Hackability, con l’esperienza del corso del Politecnico Tecnologie per la disabilità.

 

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Categorie: Tecnologie

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