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30 Novembre 2016

Voci Scomode: storie di chi sfida il potere

Ieri al Campus Einaudi alla terza edizione di Voci Scomode, evento annuale promosso dal Caffè dei Giornalisti, si è parlato di Turchia e censura di Stato

Alessia Galli della Loggia

voci-scomode-rtfAlla tavola rotonda, Erdogan e la democratura turca, organizzata da Rosita Ferrato, presidentessa del Caffè dei Giornalisti, hanno partecipato Murat Cinar, giornalista turco e attivista sociale, Ugur Bilkay, rifugiato politico turco e Lorenzo Trombetta, inviato ANSA in Medio Oriente, in collegamento skype.

UNA LIBERTA’ DI ESPRESSIONE IN BILICO
“Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione”. Così recita l’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Sulla carta si è tutti d’accordo, ma nello scenario reale si assiste ormai da anni ad una libertà di informazione che vacilla su scala globale, Europa compresa. Una strategia politica del potere è il controllo sulla propria informazione: ciò accade in Turchia, dove la situazione sta diventando tanto più critica quanto più taciuta dai media occidentali. Voci Scomode si propone dunque di fungere da “faro che aiuta a vedere nella nebbia che ci circonda”, come ha dichiarato Marinella Belluati, professoressa di Analisi dei Media.

LA QUESTIONE DELLA RAPPRESENTAZIONE
Rosita Di Peri, coordinatrice dell’evento e docente di Istituzioni, Politiche e Culture del Medio Oriente, ha fatto luce sullo scenario del Paese: la Turchia è stata presa a modello della democrazia musulmana, anche dai moti rivoluzionari della primavera araba del 2011. Le rappresentazioni mediatiche che hanno propagandato questo modello non hanno tenuto in considerazione gli aspetti più complessi della realtà turca e questo non ha consentito di creare un quadro completo del contesto contemporaneo.

LA FRANCIA CHE APRE LE PORTE AI GIORNALISTI PERSEGUITATI
Darline Gothière, direttrice della Maison des Journalistes, ci racconta dell’accoglienza rivolta a tutti quei giornalisti costretti a fuggire dai loro Paesi d’origine perchè perseguitati per il semplice motivo di aver fatto il loro mestiere. “Dal 2002 più di 270 giornalisti hanno trovato rifugio ed ospitalità nella nostra struttura. Speriamo che anche in Italia vengano approvati progetti di questo tipo”.

FARE GIORNALISMO IN TURCHIA
Murat Cinar racconta la propria esperienza, si scusa per il suo italiano che in realtà risulta comprensibile e ineccepibile essendo in Italia dal 2002. Nonostante abbia dovuto lasciare il suo Paese d’origine, Murat scrive per due riviste turche e collabora con quotidiani italiani, tra cui Il Manifesto. Tutti hanno il dovere di cercare l’informazione corretta, ma in Turchia per questo motivo studenti, giornalisti e professori sono stati arrestati: “da giornalista faccio il mio dovere e mi chiedo perchè, l’importante è andare sempre alla ricerca della verità.”

UNA VOCE DA BEIRUT
Lorenzo Trombetta vive a Beirut, in Libano, dal 2005. E’ un giornalista italiano che ha avuto il coraggio di fare giornalismo dove il giornalismo è al centro del mirino dei governi locali. In collegamento skype parla dell’atteggiamento mediatico di concentrarsi sulla violazione dei diritti umani a seconda della moda politica per influenzare l’opinione pubblica. Bisogna invece cercare di denunciare tali violazioni al di là di chi le favorisce o dove vengono compiute.

ESSERE CURDI IN TURCHIA
“Quando ero piccolo mi lamentavo del fatto che i giornalisti non dedicassero attenzione al mio Paese. Ci chiedevamo, perchè l’Europa non ci aiuta? La fiducia negli altri Stati era forte”. Ugur Bilkay ha frequentato le scuole in Turchia, dove è stato costretto a studiare in turco nonostante le origine curde. Ha sofferto una forte di crisi di identità legata al fatto che a scuola doveva definirsi turco, ma a casa si sentiva curdo a tutti gli effetti. “Durante l’ora di arte ci insegnavano a disegnare la bandiera turca, a musica memorizzavamo e recitavamo le marce militari. C’erano ore di difesa nazionale per imparare a difendere la patria e come intraprendere la carriera militare, ho protestato per questa materia perchè ci trattavano come soldati. Ma eravamo solo dei bambini. Non avevo ben chiaro il concetto di democrazia, ma sapevo in qualche modo che quel modo di educare fosse ingiusto. Il diritto più fondamentale è vivere, ma se manca la libertà non si può realmente vivere”.

 

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