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3 Aprile 2017

BD17: come si diventa terroristi?

Rabbie anticolonialiste, voglia di dare un senso alla propria vita, attrazione per il gioco della violenza: uno scrittore, una giornalista e un sociologo provano a dare risposte

Silvia Bruno

Il titolo dell’incontro svoltosi venerdì mattina al Teatro Carignano per Biennale Democrazia semplifica in realtà un fenomeno molto complesso che spesso si tende a trattare con troppa superficialità. Ma parliamo di una islamizzazione del radicalismo o di una radicalizzazione dell’Islam?
A Biennale Democrazia si è parlato di questi temi da tre punti di vista diversi: quello dello scrittore Giuseppe Catozzella, della giornalista Francesca Borri e del sociologo Stefano Allievi.

Il primo si occupa di Islam raccontando storie, come quella di Ali, ragazzo somalo diventato guerriero jihadista ma poi scappato dall’orrore con la sposa bambina che gli avevano dato in moglie: una vita vissuta sempre nel terrore la sua, da quand’era piccolo sotto le bombe alla sua scelta di combattere, fino a oggi che fugge da chi lo aveva addestrato. Catozzella cita il sociologo Bauman quando diceva che “fra la paura di chi scappa e quella di chi accoglie può esistere solo una terra desolata”. Una terra, aggiunge lo scrittore, in cui manca la bellezza intesa come valore universale dove tutti si possano riconoscere. In realtà le terre desolate sarebbero tre: le terre “altre” (i paesi arabi); l’Occidente con i vari Trump, Le Pen, i nazionalismi e la contrapposizione fra noi e loro, fra inclusi ed esclusi; e i foreign fighters che partono spesso per riscattare situazioni di ingiustizia sociale.
Catozzella conclude con un’analisti storica: il termine Medio Oriente nasce a fine Ottocento quando in quei paesi si scopre il petrolio, gli arabi con Lawrence d’Arabia sconfiggono i turchi ma invece della promessa indipendenza avviene la spartizione di quelle terre da parte dell’Europa. È il 1912: il condottiero inglese mette in guardia sulla possibilità che questo tradimento porterà prima o poi a forti ripercussioni, ma resta inascoltato.

Francesca Borri invece dal 2007 vive in Medio Oriente e negli ultimi anni si è occupata soprattutto della guerra in Siria. Secondo lei esistono diversi radicalismi all’interno dell’Islam, quando noi invece ne abbiamo un’idea monolitica. Ci sono differenze anche fra lo stesso conflitto siriano (la discriminante è essere pro o contro Assad) e iracheno (un paese che in realtà non esiste, tenuto insieme da logiche tribali e dalla vendetta del dopo Saddam).
Ma ogni paese è diverso. La Tunisia ad esempio è abbastanza stabile ma ha un’economia disastrosa, molti quindi vanno in Libia o Siria a cercare lavoro, con tutti i rischi del caso. In Bosnia i jihadisti sono giovani con alle spalle problemi familiari e sociali, addestrati da chi fece la guerra vent’anni fa; in Kosovo e Albania invece il jihadismo è più giù legato alla criminalità, come anche in Belgio, dove fino a pochi anni fa i giovani vedevano la religione dei loro padri come un inutile surplus. La sorpresa – se così si può dire – arriva infine dalle Maldive, il paese non arabo con più jihadisti, dove regnano corruzione, povertà, criminalità e ingiustizia.
In generale però dobbiamo ammettere che non conosciamo davvero questi Paesi e che, conclude la giornalista, i giovani che partono per la Siria non sono squilibrati, ma persone come noi.

L’ultimo intervento è del sociologo Stefano Allievi, studioso dell’Islam in Europa. Secondo le sue ricerche chi parte per andare a combattere cerca essenzialmente tre cose: senso, ordine e seduzione. Senso inteso come qualcosa da realizzare nella propria vita, ignorando completamente ragioni legate a una rivalsa anticolonialista. Poi si aspira a un ordine universale, vedendo il mondo diviso fra bene e male, in cui solo chi segue il jihad è nel giusto. Infine c’è un fattore di seduzione, un gusto per l’avventura e la guerra, un’attrazione per il gioco della violenza, sempre molto forte per i maschi. In questo senso l’Isis è diventato un vero e proprio brand di successo, con propri codici e canali di comunicazione, in grado di svegliare un interesse che durerà anche dopo la sconfitta del Califfato.
La buona notizia è che in Italia la situazione è migliore perché da noi i musulmani vivono in gran parte nei piccoli centri, dove c’è un controllo sociale più stretto. Non dobbiamo mai dimenticare però che la maggioranza dei musulmani è contro il radicalismo e sono loro i nostri migliori alleati, per cui le parole d’ordine contro il terrorismo dovrebbero essere includere e non generalizzare.

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Categorie: Cultura, Intercultura

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