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22 Maggio 2018

C’era una volta il Festival di Cannes

Un viaggio attraverso la crisi del tappeto rosso francese fra tradizione, scandali e progresso

Luca Ferrua

La giuria del festival

Come di consueto, il mese di maggio vede i riflettori puntati sulla Costa Azzurra e su una delle kermesse cinematografiche più celebri al mondo. La 71a edizione del Festival di Cannes si è tenuta dall’8 al 19 maggio e anche quest’anno ha raccolto grandi consensi, seppur con qualche critica alla mentalità conservatrice.

UN FESTIVAL IN ROSA
Dopo il caso Harvey Weinstein scoppiato a ottobre 2017, quando furono rese pubbliche le molestie sessuali del produttore americano, il mondo del cinema internazionale si è stretto attorno alla lotta contro la violenza sulle donne, simboleggiata dal celebre movimento #MeToo.
Non stupisce quindi che l’organizzazione quest’anno abbia dedicato un numero verde per denunciare le molestie e che la giuria del Festival sia stata la più “rosa” mai vista finora, con cinque donne su nove componenti e Cate Blanchett come presidente. L’attrice australiana ha condotto una premiazione che ha visto fra i vincitori Samal Yeslyamova come miglior attrice per il film russo Ayka, riconoscimento consegnatole da Asia Argento, che ha colto l’occasione per lanciare l’ennesimo appello alla solidarietà.
Sempre italiani sono stati anche il premio al miglior attore vinto da Marcello Fonte e quello come miglior sceneggiatura (ex aequo) assegnato ad Alice Rohrwacher, rispettivamente per i film Dogman e Lazzaro felice. La Palma d’oro è invece andata al giapponese Hirokazu Kore-Eda e al suo Shoplifters, film delicato e potente incentrato su valori e legami di una povera famiglia di Tokyo.

LA GRANDE FUGA
Sono passati oltre cinquant’anni dal celebre film con Steve McQueen e, anche se in un contesto decisamente diverso, l’ultimo film di Lars Von Trier ha ottenuto qualcosa di simile, dato che un centinaio di giornalisti è uscito in anticipo dalla sala, disgustato.
A distanza di sette anni dal suo allontanamento dal Festival per presunte ideologie filonaziste, il regista danese ha presentato fuori concorso The house that Jack built, un’opera lunghissima (155 minuti) che ancora una volta divide la stampa. Esplicitare sul biglietto la presenza di scene violente non è bastato a giustificare la cruda confessione del serial killer Jack (Matt Dillon) esposta senza filtri a un dantesco Verge (Bruno Ganz). Tra corpi seviziati, immagini autoreferenziali e una colonna sonora tanto azzeccata quanto agghiacciante, troviamo un film provocatorio al limite della misoginia, che stona con il sostegno alle donne leitmotiv a questa Croisette, così come stupisce la decisione di Uma Thurman di prendervi parte.

UNA RIVOLUZIONE CHE FA DISCUTERE
Un altro aspetto che ha diviso il pubblico è stata la politica scelta dall’organizzazione relativamente ai colossi dello streaming. Nel braccio di ferro tra Cannes e Netflix, il direttore del festival Thierry Fremaux ha infatti dichiarato che i contenuti della piattaforma americana non avrebbero potuto prender parte alla kermesse.
Infine, un’altra questione è stata quella del divieto per i selfie sul red carpet e l’assenza di anteprime per i giornalisti. Là dove l’organizzazione cerca di ridare valore al cinema, riducendo al minimo indispensabile l’egocentrismo degli attori e i leak (fughe d’informazioni), si ha la percezione di un mondo in crisi che si ostina a vivere nel passato. Escludendo la componente social e digitale dal festival si corre infatti il rischio di giocarsi una fetta di pubblico e visibilità oramai connessa alla settima arte 2.0.

 

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Categorie: Cultura

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