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16 Ottobre 2018

Chi può fermare Spotify?

Un viaggio attraverso pro e contro del colosso musicale on-demand, a cui gli artisti contestano di non pagare abbastanza i diritti d’autore

Luca Ferrua

Spotify screen

Spotify ha 140 milioni di utenti

Nel 2006 in Svezia è nato un servizio destinato a ridefinire gli standard di riproduzione musicale: raggiunte dimensioni globali, Spotify oggi conta al suo attivo oltre 140 milioni di utenti al mese, di cui circa la metà come abbonati.
Tuttavia sempre più artisti – come Jay-Z, Dr. Dre e Thom Yorke dei Radiohead – si allontanano dal gigante svedese, che nonostante un fatturato miliardario è accusato di non pagare abbastanza i diritti d’autore, le cosiddette royalty.

COME FUNZIONA
Lanciata al pubblico nel 2008, la startup scandinava è un servizio musicale on-demand, grazie al quale l’utente può riprodurre i brani disponibili in base al proprio account: gli utenti Free usufruiscono di un servizio parziale (da applicazione mobile ad esempio non è disponibile la riproduzione casuale) e interrotto da inserti pubblicitari, mentre i clienti Premium hanno libero accesso ai contenuti senza restrizioni previo pagamento (9,99 € o 14,99 € nella formula “family”, che prevede la condivisione con altri 5 account purché tutti residenti sotto lo stesso tetto).
Per poter trasmettere milioni di canzoni contemporaneamente, Spotify sfrutta una tecnologia divenuta famosa con servizi di file sharing, il peer-to-peer (da pari a pari). Per farla semplice, ogni dispositivo svolge entrambe le funzioni di client e server in maniera paritaria: così facendo, a una maggior condivisione corrisponderà una maggior reperibilità della fonte e quindi una maggior velocità nel servizio.

PRO E CONTRO
Un particolare degno di nota è proprio il fatto che Spotify si basi fondamentalmente sulla stessa tecnologia alla base di pionieri dello streaming, ma a differenza di programmi come Napster ed eMule, divenuti negli anni simbolo della pirateria online, tutte le librerie condivise da Spotify sono licenziate, vale a dire che l’azienda svedese ne paga i diritti e l’utente finale può usufruirne legalmente.
Se da una parte questo servizio ha il pregio di vincere la guerra all’illegalità, dall’altra non è certo esente da critiche. La principale sta proprio nella ripartizione degli utili. Spotify infatti sostiene di devolvere il 18% delle sue quote alle case discografiche, ma di fatto al musicista andrebbero circa 0.005 $ per riproduzione. Siccome però l’artista non guadagna in base al numero di ascolti ma sulla base di un complicatissimo algoritmo, gli introiti risultano ancora inferiori, tanto che pare servano oltre 4 milioni di ascolti al mese per guadagnare poco più di mille dollari.

CONSEGUENZE
Se da una parte Spotify e le sue playlist hanno permesso ad alcuni artisti di cavalcare l’onda del successo (basti pensare a Justin Bieber o Ed Sheeran, fra i più ascoltati nel 2018), allo stesso tempo negli ultimi anni sono esponenzialmente aumentati i tour live di molti artisti. Se prendiamo ad esempio una band immortale come i Rolling Stones, non serve essere dei fan sfegatati per rendersi conto che quasi un terzo dei loro concerti in Italia risale infatti all’ultimo decennio.
Band che prima potevi vedere una volta nella vita ora si esibiscono sotto casa con la frequenza dei Mondiali di Calcio: questo perché l’industria della musica è in crisi e il settore digitale, l’unico a rimanere a galla, non riesce però a ricompensare adeguatamente le sue principali fonti di reddito.

 

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Categorie: Musica, Tecnologie

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