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26 Febbraio 2019

Arte sulla pelle: al Mao l’evoluzione del tatuaggio

Fino a domenica al Museo d’Arte Orientale un’esposizione su tradizione e significato di questa pratica fra Oriente e Occidente

Luca Ferrua

La mostra sul tatuaggio al Mao

Dagli usi tribali in Oceania alla moda mainstream di oggi, fino al 3 marzo al Mao – Museo d’Arte Orientale di Torino il tatuaggio è protagonista della mostra Tattoo. L’arte sulla pelle, che offre una prospettiva storica su questa pratica analizzando il suo incontro/scontro con l’Occidente, lasciando però – inspiegabilmente – un ruolo marginale al suo sviluppo in Oriente.

NEL PAESE DEL SOL LEVANTE
L’esposizione si apre comunque con una panoramica sul Giappone. La prima sala è infatti incentrata sul tatuaggio nipponico: attorno la Venere Italica dell’artista piemontese Fabio Viale (una Venere di Milo con la schiena tatuata), quattro pannelli offrono allo spettatore una dozzina di foto dell’irezumi (dal giapponese ireru e sumi, cioè “inserire inchiostro nero”) che ripercorrono la sua evoluzione nel paese del Sol Levante.
Dagli eroi di Kuniyoshi Utagawa – punto di riferimento per il tatuaggio giapponese – ai capolavori contemporanei di Yoshihito Nakano, meglio noto come Horiyoshi III, titolo riservato al più grande horishi (tatuatore): in pochi metri la mostra offre uno spaccato sulla cultura nipponica anche grazie alle foto di Felice Beato, che nella seconda metà dell’Ottocento fu tra i primi occidentali a immortalare scene di vita quotidiana giapponese.

RITI DI INIZIAZIONE
Proseguendo nella mostra si supera il sud-est asiatico per arrivare in Polinesia: qui grazie al patrimonio lasciatoci dall’esploratore britannico James Cook è possibile osservare il primo contatto con il “selvaggio” tatuato dei mari del sud.
Tra fotografie della popolazione Maori, antichi utensili da tatuatore e scudi con volti tatuati fatti di legno e capelli umani, troviamo anche 250cm Tattoed on 6 remunerate people di Santiago Sierra, opera di critica alla società capitalista con sei ragazzi in fila pagati per tatuarsi una linea continua sulla schiena.

IL MARCHIO DEI FUORILEGGE
Quello successivo è un percorso che ripercorre il tatuaggio in Italia e l’associazione della pratica a una moralità depravata.
Si parte dall’antropologia criminale ottocentesca di Cesare Lombroso, dal cui museo arriva parecchio materiale storico, come i disegni sul corpo del criminale Francesco Spiteri (con tanto di didascalia iconografica dei suoi tatuaggi), fino ai marchi per tatuaggi devozionali dei pellegrini del Santuario di Loreto.

DALL’UNDERGROUND AL MAINSTREAM
L’ultima sezione della mostra è dedicata allo sdoganamento del tatuaggio. Partendo dagli anni ’60 con l’iconico film fantascientifico L’uomo illustrato, attraversando le scene punk e skinhead degli anni ’80 e superando le croci messicane nate da influenze pachuco (subcultura messicana californiana di gang di strada) o i disegni dello scrittore Nicolai Lilin in stile trash polka (decorazioni e lettering in nero e rosso), gli allestitori ci accompagnano lungo un’evoluzione stilistica più che temporale.
Questa progressione annovera tra i suoi ranghi artisti anticonvenzionali come il belga Wim Delvoye, che con il suo stile provocatorio ha trasformato dei maiali in involontari testimonial di grandi marchi, tatuando loro il dorso a paragone tra la loro condizione e lo status di emarginati delle persone tatuate del passato.
Tanta arte insomma, ma poca arte orientale (relegata al solo ingresso) come ci si aspetterebbe invece dal museo che ospita l’esposizione.

 

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Categorie: Cultura

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