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21 Marzo 2019

La trasformazione dei partiti nell’era digitale

Smartphone, app e social network lentamente stanno modificando anche le organizzazioni politiche. Il loro futuro sarà la digitalizzazione? La parola al sociologo Paolo Gerbaudo

Paride Pasini

L’era digitale ha modificato i partiti

La rivoluzione digitale ha travolto anche l’organizzazione dei partiti. Su che principi si basa la nuova azione politica? Lo chiediamo in questa intervista al dott. Paolo Gerbaudo, sociologo politico, Direttore del Centro per la Cultura al King’s College di Londra e studioso dei movimenti sociali e della nascita dei partiti politici dopo la crisi economica del 2008.

Nei suoi libri Il partito piattaforma e Il partito digitale parla della trasformazione del partito, da tradizionale a digitale. Come possiamo definire quest’ultimo?
«Il partito digitale integra nella sua struttura le nuove tecnologie, la logica dei social media e delle piattaforme, che sono diventate lo scheletro organizzativo di compagnie di successo come Google e Facebook. Lo scopo è creare un ambiente partecipativo che riporti gli elementi di democrazia ai partiti politici, visti dai cittadini invece come strutture chiuse che non rispondono alle sollecitazioni che provengono dalla popolazione».

In cosa si differenzia il partito digitale dai partiti tradizionali?
«Quello che cambia, fondamentalmente, sono i media di riferimento. Nel partito di massa il medium di riferimento era la stampa in tutte le sue forme: il quotidiano di partito, le riviste, i volantini e i manifesti elettorali. Successivamente abbiamo avuto il partito-televisione. Nel partito digitale invece i media di riferimento diventano i social, canale attraverso il quale la formazione politica si manifesta all’elettorato, costruisce e mantiene un legame affettivo tra il popolo e il partito. Spesso questo processo avviene attraverso l’intermediazione di un leader carismatico che si presenta ai cittadini attraverso continue apparizioni come live stream, post su Facebook, tweet, foto su Instagram e così via».

Come nasce un partito digitale? In quanto tempo può formarsi?
«I partiti digitali nascono da una frattura, all’interno della popolazione, prodotta dalla rivoluzione digitale che è avvenuta in contemporanea con la crisi economica del 2008. Questo processo ha creato un nuovo settore dell’elettorato, composto da giovani che si trovano in situazione di precarietà. Non si sentono più rappresentati dai partiti tradizionali, in cui, invece, si riconoscono altri settori della società. Nel libro uso il concetto di disconnected outsider, ovvero di outsider sconnessi, per rifermi sia a questo elettorato per lo più giovanile, sia agli individui di età più avanzata, che si contraddistinguono per un alto livello di formazione e di utilizzo delle nuove tecnologie, accompagnato però da una situazione di insicurezza economica. Questo tipo di partito prende dalle compagnie digitali anche la natura di startup, ovvero la capacità di crescita rapidissima».

Il sociologo Paolo Gerbaudo

Individua come caratteristica di questa nuova tipologia di partito la sua leggerezza, sia a livello di struttura che di comunicazione. In che modo questa destrutturalizzazione può essere un punto di forza?
«È un punto di forza perché permette ai partiti di non dover ricorrere alle ingenti risorse economiche necessarie al mantenimento di una struttura pesante come quella dei partiti tradizionali, ovvero uffici e impiegati, che sono ciò che garantiva le loro capacità organizzative e la loro presenza nella società. Il partito digitale ha una struttura molto più leggera, con pochi impiegati. Il lavoro di integrazione tra la leadership e la base viene espletata dalla piattaforma digitale, che raccoglie la banca dati degli iscritti e dove hanno luogo quelle interazioni che un tempo si sarebbero svolte nelle sezioni di partito».

Ha parlato di database, quindi di iscritti. Nel suo libro introduce il concetto di superbase: come possiamo definirlo?
«È la base interattiva che questi partiti creano, dandole una serie di capacità decisionali che nei precedenti organizzazioni non erano previste: per esempio eleggere direttamente il proprio leader e tutti gli organi del partito, intervenire in discussioni sulle politiche, sulla strategia e sui vari fatti politici del giorno. In questo vediamo, più che l’interattività, la reattività della superbase, ovvero i militanti hanno la possibilità di reagire ai contenuti proposti di volta in volta dalla leadership con una consultazione su cui votare spesso nella forma binaria di un sì o no, o diffondere un contenuto con le varie metriche del web come una condivisione, un like, un commento. Un sistema di partecipazione piuttosto diverso da quello che ci viene promesso all’inizio, ovvero l’idea di democrazia deliberativa, in cui tutti sono in grado di dire la loro e intervenire nella discussione».

Insieme alla superbase, introduce un altro concetto: l’iperleader.
«L’iperleader è l’altro volto del partito digitale. Fa coppia chiaramente con la superbase ed è un leader carismatico che utilizza i social media come megafono per esprimere le proprie idee, per far sentire la propria presenza e costruire una sorta di stato di celebrità. È una strana convergenza tra il potere politico e il carattere degli influencer e degli youtuber, che si costruiscono un seguito sulla pura base della loro vita personale e della loro capacità di ispirare, divertire ed emozionare il pubblico. La finalità è quella di creare legami di fiducia tra il leader e la base, in un contesto caratterizzato da una quasi totale sfiducia nella politica».

Il futuro del partito è la digitalizzazione?
«Il futuro del partito non è la digitalizzazione semplicemente come cambiamento tecnologico. È un cambiamento organizzativo e di visione di quello che sono la partecipazione e la democrazia».

 

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Categorie: Cultura

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