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15 Aprile 2019

Dentro una centrale nucleare

Il racconto della visita all’impianto di Trino Vercellese, a 18 anni dall’avvio della dismissione

Luca Ferrua

La consolle di comando della centrale nucleare di Trino (foto di G. Sabini)

Questo weekend la Sogin, società a cui è stato affidato il compito di smantellare gli impianti nucleari in Italia (il cosiddetto decommissioning) ha organizzato il suo terzo open gate, ovvero due giornate durante le quali sono state aperte al pubblico le porte delle centrali di Trino Vercellese, Caorso (PC), Latina e Garigliano (CE).
Con il nostro fotografo Gabriele Sabini siamo andati nel sito piemontese, a vedere da vicino in cosa consista effettivamente un impianto nucleare, provando a capire meglio questa fonte di energia tanto potente quanto pericolosa. Guarda le foto della centrale nucleare di Trino Vercellese.

L’ARRIVO
La strada che ci porta alla meta è tutta dritta, solo qualche rudere sparpagliato qui e là e i binari della ferrovia interrompono l’altrimenti infinita distesa di risaie del vercellese. Quello che ci si staglia davanti pare un normalissimo paesaggio rurale piemontese, almeno fino all’iconica coppia di torri di raffreddamento la cui forma a camino è diventata con I Simpson un simbolo della cultura pop. Le ciminiere non appartengono alla nostra destinazione, ma bensì alla centrale termoelettrica a circuito combinato Galileo Ferraris; sono però il segno che siamo arrivati a Trino, un paesino di 7mila abitanti tutt’altro che ordinario. È qui infatti che tra il 1961 e il 1964 è stato costruito uno dei quattro impianti di produzione di energia nucleare d’Italia, la centrale Enrico Fermi.
All’arrivo ad accoglierci c’è l’ingegnere Davide Galli, responsabile della disattivazione, il quale prima di accompagnarci nel tour ci presenta brevemente la struttura che andremo a visitare.

LA VISITA
Questo colosso grigio e bianco sulle sponde del Po appare come un sito post apocalittico abbandonato: durante il tragitto all’esterno il silenzio è rotto solo dal crepitio della corrente elettrica e dall’impulso ritmico del minisonar. Per accedere alla zona controllata veniamo accompagnati in uno spogliatoio asettico di colore verde acqua, dove il personale ci fornisce dei dispositivi di sicurezza e un dosimetro per misurare la radioattività assorbita. Da qui, superando enormi vasche d’acqua, accediamo a un gigantesco uovo bianco che tanto ricorda i boccaporti dei traghetti, ma che in realtà è l’ultimo sistema di contenimento contro le radiazioni che ci separa da morte certa.
Ciò che ci troviamo di fronte è imponente: la testa del vessel è un immenso cilindro metallico al cui interno ci sono le 28 barre di controllo: qui le potenze in gioco erano così grandi – ci racconta Davide Galli – che durante il funzionamento l’intera struttura con le sue centinaia di tonnellate di cemento tremava come una foglia.
Da lì poi ci spostiamo a vedere i depositi di stoccaggio dei fusti contenenti pizze di rifiuti radioattivi a bassa e media attività, per poi uscire dalla zona controllata. Qui la ricerca di eventuali contaminazioni avviene all’interno di grossi gabbiotti metallici, dove una voce femminile ci guida attraverso la procedura da seguire con un accento che pare un malvagio caricaturale di un film di James Bond.
L’ultima tappa è poi la sala manovre, là dove tutto veniva controllato e segnalato, il centro nevralgico operativo, il cervello dell’impianto. Qui, prosegue l’ingegnere, tutti dovevano sapere tutto. Per potervici lavorare bisognava infatti seguire prima due anni di formazione fatta di esami universitari di fisica teorica, nucleare e quantistica e prove in simulatore per ottenere la patente per i manipolatori: insomma, la postazione di Homer Simpson è decisamente sottostimata. La sala è un capolavoro elettronico e ingegneristico degli anni ’60 al cui centro troneggia una gigantesca consolle di comando semicircolare, con decine di misuratori, leve e pulsanti, tra cui il celebre pulsante rosso per lo scram manuale (l’arresto dell’intero impianto). Le pareti invece sono ricoperte da centinaia di spie luminose di allarme divise per area e codice di colore, così perfettamente organizzate che chi lavorava qua dentro (quattro persone a turno giorno e notte) sapeva già cosa fosse successo solamente alzando lo sguardo.
Da qui ci avviamo infine verso l’uscita, dove possiamo vedere un modello di contenitore per il trasporto di combustibile nucleare: un gigantesco cilindro metallico nato per attutire integralmente qualunque danno, da un treno in corsa ai colpi sparati da un cannone magnetico.

 

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Categorie: Tecnologie

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