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14 Novembre 2019

L’enologo e l’arte di fare il vino

Livio Craveri, 28 anni, ci ha raccontato curiosità, ricordi e progetti di un mestiere antico e pieno di sorprese

Fabio Gusella

Uomo che saluta da dentro un tino di fermentazione

Livio Craveri… in un tino di fermentazione

Cosa fa un enologo? Esiste un percorso di studi ad hoc? Enologo e sommelier sono sinonimi? Per rispondere a queste e altre domande abbiamo intervistato Livio Craveri, enologo piemontese di 28 anni nato a Savigliano e cresciuto a Verzuolo, all’imbocco della Valle Varaita.

Raccontaci com’è nata la tua passione per il vino.
«Non sono cresciuto in un territorio vocato alla viticoltura, o meglio: per come la vedo io, si tratta di un territorio la cui vocazione deve ancora esprimersi. Pertanto, la mia passione è nata in modo inconscio ed è rimasta latente per molti anni: quando ero bambino, mio padre comprava ogni anno del vino sfuso e insieme, “quando la luna era buona”, lo imbottigliavamo. Rigorosamente la sera, dopo cena. Quel momento atteso per un intero anno finalmente si realizzava, con il consenso degli astri, nell’intima realtà di me e mio padre nella mal illuminata cantina di casa. Dopo la maturità ho fatto i lavori più disparati, dall’addetto alla catena di montaggio di freni per automobili all’installatore di pannelli fotovoltaici, poi cameriere e infine barman a Mentone, in Costa Azzurra. Queste ultime esperienze mi hanno riavvicinato al mondo del vino e avendo intanto ritrovato la voglia di studiare, mi sono poi iscritto al Corso di Laurea in Viticoltura ed enologia all’Università di Torino».

Come si diventa enologi?
«Ci si può definire enologi solo quando si padroneggia la chimica, indispensabile per poter gestire la produzione dalla pigiatura all’imbottigliamento. Tuttavia, lo studio è basilare ma non basta. Si deve rimanere curiosi: la conoscenza tecnica nel campo dell’enologia è in continua evoluzione e nel giro di pochi anni, se non ci si aggiorna, si rischia di perdere il passo e diventare degli enologi datati. Per diventare enologo è necessaria tanta passione: è l’ingrediente che impedisce a questo lavoro di diventare ripetitivo».

In che cosa consiste il tuo mestiere?
«Questo lavoro si coniuga in molti modi diversi, a seconda della realtà produttiva in cui si trova. In sintesi, l’enologo è colui che “fa il vino”, ma usando questa espressione si tirano in ballo tantissimi aspetti diversi. Un enologo può essere lo stesso vignaiolo e proprietario dell’azienda, oppure un consulente che segue la vinificazione in diverse cantine. Oltre alla già citata conoscenza chimica, un enologo deve sapere come condurre un vigneto, conoscere cioè le caratteristiche peculiari delle varietà di viti che lo compongono e del terreno sul quale cresce. Solo così potrà individuare la tecnica di vinificazione più adatta a una certa partita di uva».

La cultura pare svolgere un ruolo fondamentale.
«Certamente: l’enologo deve conoscere la storia, enologica e non, nonché la cultura del luogo in cui lavora. Il vino è l’espressione di un territorio: quando si parla di vino di terroir (territorio, letteralmente, ndr), in realtà si chiamano in causa non solo il posto, ma anche il clima e la conoscenza enologica di quel territorio, che deriva direttamente dalla cultura e dalla storia della gente che lo ha abitato. Alla luce di ciò, si comprende la differenza fra un enologo e un sommelier: il primo fa, il secondo giudica. Quando mi sento dire “Ah, ma quindi sei sommelier!” faccio spesso questo paragone: la differenza che c’è tra un enologo e un sommelier è la stessa che passa tra un regista e un critico cinematografico».

Qual è il tuo rapporto con il vino?
«Fin dall’infanzia, mi sono sempre approcciato al vino con rispetto, una specie di timore reverenziale, un approccio che riscontro ancora adesso in tanti neofiti appassionati. Sarà la storia millenaria radicata nelle nostre terre a incutere questo timore o piuttosto la paura di non capire fino in fondo cosa veramente ci sia nel calice oltre al liquido. Fatto sta che quest’aura di mistero misto a tradizione e questa ricerca instancabile di qualità sono state le origini del mio interesse per il vino. Riguardo alla mia passione, poi, il detto “la fame vien mangiando” è più che azzeccato: procedendo con gli studi, infatti, l’interesse non ha fatto che aumentare».

Qual è l’aspetto che più ti affascina di questa professione?
«Non si può barare. Non ci sono scorciatoie. Se un vino è buono vuol dire che dietro c’è stato tanto lavoro e soprattutto rispetto per la materia prima. La meritocrazia è automaticamente applicata. È esattamente ciò che accade nel caso delle altre mie passioni: la corsa in montagna e il ciclismo. Pratico questi sport da quando avevo 11 anni e il fatto che per ottenere un risultato soddisfacente sia necessario lavorare sodo mi è ben chiaro fin da allora. Un altro aspetto che mi piace molto è che grazie a questa professione è possibile viaggiare. Ad esempio ho potuto trovare un lavoro in Australia appena una settimana dopo essermi laureato. È stata un’esperienza molto formativa che terrò sempre preziosa».

E l’aspetto che più ami?
«In generale, ciò che più amo del mondo del vino sono le persone. I produttori di vino che ho conosciuto in questi anni sono stati per la maggior parte persone molto disponibili, che non solo facevano tesoro delle loro esperienze, ma erano anzi felici di condividerle quando mi dimostravo curioso. Curiosità presente anche da parte loro, che mi facevano sentire non l’ultimo arrivato ma, avendo da poco finito gli studi, il professionista più aggiornato al momento».

Di cosa ti occupi attualmente?
«Collaboro con una piccola impresa che produce vini aromatizzati, Vermouth e chinati, e intanto lavoro come consulente viticolo ed enologico per un ragazzo che vuole cominciare a produrre vino dalle vigne di proprietà situate sulle colline saluzzesi: un territorio nel quale, da quando ho cominciato gli studi, sogno di rilanciare la realtà vitivinicola. Poi c’è il mio esperimento. Dopo il corso di enologia all’università infatti non ho resistito alla tentazione di mettere in pratica le conoscenze appena acquisite. Abito in una delle principali regioni di produzione di mele in Europa, per cui la scelta di cosa fermentare è stata ovvia. Fra l’altro il sidro di mele che si trova nei locali della mia zona è un surrogato della birra, poco frizzante, vagamente dolce. Al contrario, ho voluto da subito fare un prodotto molto diverso, qualitativamente superiore, un vero e proprio vino di mele».

Raccontaci di questo esperimento.
«Ho voluto sperimentare fino in fondo applicando la tecnica di vinificazione più elaborata: il metodo classico. Per intenderci, è la tecnica di spumantizzazione usata per ottenere vini del calibro dei Franciacorta o Champagne. Nonostante si trattasse di un’elaborazione molto difficile da riprodurre in casa, il primo risultato, per un totale di una ventina di bottiglie, è stato comunque incoraggiante. Ho ripetuto l’esperimento l’anno successivo aumentando la produzione e i risultati sono migliorati. Dal 2018 con mio fratello e un amico abbiamo voluto fare le cose sul serio creando una nostra sidreria: abbiamo appena messo in commercio un sidro di mele spumante che abbiamo chiamato Arvirà. Siamo così arrivati a produrre 1.500 bottiglie in una cantina professionale e, di queste, 1.000 sono pronte al commercio da pochissimi giorni. A breve pigeremo le mele della futura produzione. L’obiettivo a lungo termine è quello di recuperare le antiche varietà di mele, dimenticate nei boschi delle nostre valli e rilanciarne l’utilizzo, difendendo così un’importante fonte di biodiversità. Il tutto nell’ottica di creare qualcosa di molto legato al nostro territorio. In fondo, penso che sia questo il compito di un enologo».

 

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