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30 Aprile 2020

Il genocidio in Ruanda, 26 anni dopo

Nel mese in cui si ricorda uno degli episodi più tristi della recente storia africana, un approfondimento sul conflitto tra Hutu e Tutsi e sul presente del paese

Giovanni B. Corvino

Foto i bianco e nero con uomo di colore che guarda fotografie appese al muro - genocidio Ruanda

Un padre alla ricerca di suo figlio durante il genocidio – ©Icrc/Benno Neeleman

Nell’aprile del 1994 inizia in Ruanda una delle più terribili manifestazioni della violenza umana, che segnerà per sempre l’Africa. Fino al luglio dello stesso anno circa un milione di persone perdono la vita a causa di un odio interetnico risalente all’amministrazione coloniale del Belgio.
In precedenza, verso la fine del XIX secolo, nel territorio convivevano pacificamente i Tutsi (aristocratici e allevatori) e gli Hutu (agricoltori). È con l’introduzione del concetto di carta d’identità che il governo belga sconvolge gli equilibri sociali nel corso degli anni Trenta del Novecento; col fine d’identificare l’intera popolazione, si determina una classificazione razziale dei ruandesi sulla base del loro status sociale e delle loro caratteristiche somatiche. I Tutsi diventano inevitabilmente i favoriti, in quanto benestanti ed esteticamente più simili ai caucasici, data la loro altezza maggiore rispetto agli Hutu, oltre che ai lineamenti del volto meno marcati.

LA GUERRA CONTRO IL POTERE
Dopo anni di angherie e stanchi di essere considerati inferiori, gli Hutu organizzano una rivolta nel 1959, avente l’obiettivo di sovvertire la monarchia Tutsi e il controllo coloniale. Ne segue il referendum del 1961, che sancisce l’indipendenza dal Belgio nell’anno successivo. È con questo evento, però, che s’innesca un processo di ostilità e disumanità che culminerà in un vero e proprio genocidio.
Nella loro lotta all’indipendenza, gli Hutu uccidono oltre 100.000 persone, considerate nemiche in quanto appartenenti a categorie di status e razza diverse dalla loro. Negli anni successivi, si verificano così una serie di colpi di stato volti alla conquista di un pieno potere politico. I Tutsi hanno la loro rivincita dieci anni dopo, quando nel 1972 sterminano 200.000 Hutu. Quest’ultimi, per tutta risposta, reagiscono con un’ennesima azione violenta e nel 1975 riescono a instaurare un regime autoritario con a capo Juvénal Habyarimana, già Presidente del Ruanda dal 1973.

IL GENOCIDIO
Il 6 aprile 1994, il jet privato di Habyarimana viene abbattuto e con lui perde la vita anche il Presidente del Burundi Cyprien Ntaryamira. Ad oggi non si sa ancora chi sia la mente dietro questo episodio; secondo alcune investigazioni internazionali, sarebbero proprio alcuni esponenti dei movimenti Hutu, le principali forze politiche del Paese, ad architettare l’omicidio. Questo perché il leader del Ruanda – in carica da oltre vent’anni – da troppo tempo sembra disponibile a una possibile riconciliazione con l’oppressa minoranza. Il caso, in realtà, servirebbe solo come scintilla per scatenare la violenza degli estremisti di maggioranza. È così che, grazie alle carte d’identità introdotte dall’amministrazione coloniale belga, è molto facile individuare chi colpire.
Secondo i più recenti dati diffusi dal governo ruandese, in soli circa 100 giorni, più di un 800.000 Tutsi vengono massacrati. Contando anche i 200.000 Hutu morti durante il genocidio da loro iniziato, in quel periodo ogni giorno perdono la vita 10.000 persone, con una media di 416 vittime all’ora.
La violenza sessuale, compiuta per lo più sulle donne, diviene altresì uno strumento di guerra. La maggioranza dei fortunati sopravvissuti muore poi lentamente, poiché ha contratto l’Aids.

IL RUANDA OGGI
Sono passati ormai 26 anni dal genocidio, ma il ricordo è più che mai vivo nella memoria del territorio. Questa vicenda resta uno degli eventi che hanno profondamente segnato la storia africana del XX secolo e in parte anche quella mondiale dati i successivi risvolti, seppur entro i limiti dell’indifferenza internazionale.
Attualmente la popolazione ruandese è composta per l’84% dagli Hutu, per il 15% dai Tutsi (che prima del 1994 rappresentavano il 20%) e per l’1% dai Twa, un’antica comunità autoctona dell’Africa centrale.
Il Paese continua a essere, come in passato, tra i più poveri del continente. In aggiunta è gravato da uno scarso sistema sanitario e una bassa speranza di vita alla nascita, di soli 39 anni per gli uomini e 40 per le donne. Questo in parte è anche dovuto alla diffusione dell’Aids, che ad esempio solo nel 2006 ha causato la morte di 2 milioni di persone.
Nonostante tali problematicità il Ruanda sta affrontando oggi una nuova sfida, nella speranza di non restare ancorato alle dolorose conseguenze di quanto avvenuto in passato. Con il Kigali Masterplan 2040, un innovativo piano di urbanistica sostenibile per la capitale del paese, il governo punta a creare un nuovo polo economico e ad attrarre più turisti grazie a un grande investimento nei parchi nazionali, in cui sarà possibile ammirare molte specie in via d’estinzione.

 

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