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19 Ottobre 2020

Greenwashing: non tutto il “verde” è davvero sostenibile

Come difendersi dalla strategia di marketing che, ingannando i consumatori, presenta le aziende come attente all’impatto ambientale dei propri prodotti

Fabiana Re

Superficie verde e scritte greenwashing, eco, biologico, naturale, riciclabile

Il greenwashing millanta comportamenti aziendali sostenibili

Il Climate Clock installato a New York ce lo ricorda con cruda schiettezza: abbiamo soltanto sette anni per modificare il sistema economico mondiale e porre un freno alle emissioni di gas serra, prima che i cambiamenti climatici diventino irreversibili.
Raggiunta questa consapevolezza, come possiamo allineare le nostre piccole azioni quotidiane ai princìpi di sostenibilità ambientale? Magari al supermercato siamo tentati di acquistare prodotti le cui etichette sussurrano seducenti parole quali “eco friendly”, “100% naturale” o “riciclabile”. Riempiendo il carrello di oggetti vestiti di verde facciamo pace con la nostra coscienza e, soddisfatti, pensiamo di aver contribuito alla salvaguardia dell’ambiente. Attenzione, però, alla trappola del greenwashing.

DI COSA SI TRATTA?
Il greenwashing è una strategia di marketing consistente nel proclamare presunti comportamenti sostenibili, in modo da attirare quei consumatori più attenti al proprio impatto sul pianeta. Si tratta di pubblicità ingannevole: nella realtà l’azienda investe più tempo e denaro nella promozione dei suoi prodotti “green” che nell’implementazione di politiche ambientali stringenti. L’obiettivo? Un profitto maggiore, a discapito degli inconsapevoli compratori, disposti a spendere di più pur di fare acquisti amici del pianeta.
Il termine greenwashing nasce dalla combinazione di due parole: “green”, ovvero verde, e “whitewashing”, cioè l’attività di nascondere fatti spiacevoli o scandalosi. Per una rappresentazione visuale, si immagini un oggetto nero dipinto di vernice verde: basterà raschiarne il rivestimento superficiale per scoprirne il vero colore. Allo stesso modo, per smascherare un’azienda che fa greenwashing bisogna indagare al di sotto della patinata estetica dei suoi prodotti.

PAROLE E IMMAGINI
Possiamo articolare le più diffuse pratiche di greenwashing in alcune ampie categorie. Nella prima rientrano tutte le forme più plateali e riconoscibili: in questo caso è l’impresa stessa a promuovere un prodotto come sostenibile, attraverso l’uso di parole come “eco”, “green”, “biologico”. Il problema? Non esiste nessuna certificazione ufficiale.
Talvolta è la confezione del prodotto a essere oggetto di questa ingannevole strategia di marketing. Gli scaffali dei supermercati sono invasi da flaconi di plastica “in materiale riciclato”, senza specificare in quale percentuale, o “biodegradabili”, trascurando deliberatamente il fatto che anche questi necessitano di essere riciclati nel modo corretto. Gli spot più divertenti? “100% riciclabile” e “Riciclami!”: in questo modo l’azienda scarica l’intera responsabilità sulle spalle del consumatore.
Una forma più sottile di greenwashing gioca invece sulle associazioni che la nostra mente fa a livello inconscio. Ecco che le etichette dei prodotti ricorrono spesso al colore verde, si popolano di foglie e fiori disegnati, ridenti mucche al pascolo e scenari rurali. Il messaggio subliminale è chiaro: “Sono un prodotto naturale e amico dell’ambiente”. Peccato che, anche in questo caso, dietro a quella confezione di biscotti o di formaggio si nascondano allevamenti intensivi o siti produttivi industriali che di rurale hanno ben poco e, soprattutto, non hanno alcuna certificazione ambientale.

SOTTOMARCHE E PRODOTTI-CIVETTA
Una multinazionale può inoltre essere interessata a nascondere il proprio marchio agli occhi dei consumatori che preferiscono supportare piccole imprese locali. In questo caso il greenwashing consiste nel lanciare sul mercato un prodotto più sostenibile e presentarlo come indipendente: il logo della società scompare dall’etichetta, che proclama invece la naturalità dello stesso. Solo un’attenta lettura del retro della confezione (avete presente quelle righe in caratteri minuscoli?) rivela la verità: la “piccola azienda” è controllata al 100% da una multinazionale.
Un grande brand noto per il suo impatto ambientale può anche adottare la strategia inversa: creare un prodotto sostenibile e sponsorizzarlo diffusamente per nascondere le sue normali attività. Un esempio su tutti: le collezioni in “cotone sostenibile” dei marchi della fast fashion.
Il greenwashing è dunque una giungla insidiosa e cadere in qualche trappola è inevitabile. L’esperienza però può renderci più attenti: leggere con cura il retro delle etichette, prestare attenzione alla presenza di certificazioni ambientali e informarsi online sono ottime tecniche per smascherare queste strategie di marketing.

 

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Categorie: Economia

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