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17 Novembre 2020

South Working: lavorare da remoto per tornare a casa

Durante il primo lockdown un gruppo di giovani professionisti di Palermo ha dato vita a un’iniziativa che mette in discussione il gap dell’occupazione fra Nord e Sud Italia

Valeria Guardo

Gruppo di giovani sorridenti - staff di South Working

Lo staff di South Working

Un progetto no-profit che vede nell’attuale situazione sanitaria una finestra aperta su nuove opportunità di sviluppo dei territori del nostro paese: è South Working – Lavorare dal Sud.
L’idea di base – realizzata grazie a Fondazione con il Sud e in collaborazione con la rete Global Shapers – è di una giovane ricercatrice in Diritto e Scienze umane di Palermo, Elena Militello, e prende spunto da iniziative analoghe che costituiscono già una realtà tangibile oltreoceano. Il punto di partenza è che la diffusione e la promozione della cultura del lavoro agile, o smart working, possano essere il mezzo per giungere a un miglioramento del sistema economico e sociale italiano.
Martina Derito, Systemic and Graphic Designer e socia fondatrice del progetto, ci aiuta a capire come.

Spiegaci cos’è South Working.
«L’impegno dell’associazione è quello di fornire un servizio di advocacy, cioè un movimento di opinione, sulla possibilità di lavoro agile e anzi, diffondere questa nuova realtà professionale. L’obiettivo principale è creare una coesione economica, sociale e territoriale tra nord e sud del paese, ma anche tra Nord e Sud Europa, così come stabilito dalla Costituzione italiana all’articolo 119, e dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea agli articoli 174 e 178. Ciò sarebbe possibile grazie a una nuova cultura del lavoro incentrata su modalità agile di svolgimento».

Chi fa parte del progetto?
«Siamo giovani professionisti in vari settori e con ruoli diversi, accomunati dal fatto di provenire tutti o quasi dalle regioni del Sud Italia, e dall’essere stati costretti ad abbandonare luoghi e famiglie d’origine per poter seguire ambizioni e opportunità professionali. Oggi più che mai, in parte anche in conseguenza all’epidemia di Covid, siamo uniti dalla voglia di poter tornare a casa senza dover rinunciare per forza al nostro lavoro».

Come operate?
«Come specificato nella nostra Carta del South Working la modalità agile di lavoro favorisce, anziché arrestare, la mobilità delle persone e in questo modo giovani professionisti che per motivi di studio o lavoro si sono trasferiti al Nord potrebbero tornare ai loro affetti, ripopolando vaste aree italiane che nei decenni si sono svuotate a causa della mancanza di opportunità. Tutto ciò ha effetti positivi non solo sulle regioni a sud del Paese, che in questo modo godrebbero di un forte impulso alla creazione di nuovi servizi e infrastrutture digitali efficienti, ma a beneficiarne sarebbero le stesse aziende che, concedendo ai propri dipendenti condizioni ottimali per conciliare lavoro e famiglia, otterrebbero da questi un aumento di produttività e qualità del lavoro. Inoltre, il progetto supporta i lavoratori e le imprese grazie a un servizio di mediazione: in fase di negoziazione del contratto di assunzione, l’utente può avvalersi del nostro servizio per ottenere i presupposti per lavorare in maniera autonoma e al di fuori della sede di lavoro ove possibile, andando incontro anche alle esigenze delle aziende».

Quali mezzi avete a disposizione per raggiungere questi obiettivi?
«Abbiamo creato un osservatorio scientifico sullo smart working che permette di individuare un target di utenza grazie a indagini mirate e abbiamo una community su Facebook. Su Instagram e Linkedin condividiamo due rubriche: #storiedisouthworking e #southworkingpossibile. Nella prima raccontiamo le esperienze dei lavoratori in smart working, chiamati south worker, mentre con la seconda diamo voce a esperienze di innovazione sociale nel Sud Italia e nelle aree interne. A breve lanceremo una terza rubrica, #southworkingaziende, con l’obiettivo di riportare i casi di aziende remote-friendly, cioè propense al lavoro a distanza, tra benefici e le difficoltà».

Avete riscontrato particolari criticità nel vostro percorso?
«Sì, grazie all’osservatorio e alla community ci siamo resi conto che in molte aree italiane interne e del Sud mancano degli spazi consoni al lavoro da remoto; i coworking, di cui abbiamo fatto una mappatura a cui si può contribuire, sono pochi o sono lontani e difficilmente raggiungibili con i servizi di trasporto pubblico locale. Bisogna precisare che il nostro progetto non nasce per promuovere condizioni lavorative “comode” come lo smart working dalla casa al mare, riservato a pochi fortunati. Al contrario, mira a stimolare lo sviluppo di spazi urbani e di coworking, in cui fondere dimensione lavorativa e sociale. I coworking sono, per i south worker, veri e propri presidi di comunità in cui la partecipazione attiva, la collaborazione intergenerazionale e la cura della comunità locale assumono un valore centrale».

 

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Categorie: Lavoro

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