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28 Novembre 2012

Tff30: divi al servizio di registi esordienti

“Arthur Newman” e “The Liability”, in concorso, possono contare su grandi nomi del cinema: basterà per attirare i consensi della giuria?

Matteo Giachino

Opere prime, seconde o (al massimo) terze si contendono la palma, pardon il premio di miglior film nella sezione Torino 30 del TFF, quella dedicata ai lungometraggi internazionali.
Molte volte il cast rispecchia la peculiarità principale delle pellicole in concorso, è emergente come chi le ha dirette. In altre capita che attori di fama mondiale decidano di sposare un progetto in nome della sua presupposta qualità implicita, in barba al nome del regista: è il caso delle coppie Colin Firth-Emily Blunt e Tim Roth-Peter Mullan, rispettivamente protagoniste in “Arthur Newman” e “The Liability”.

FIRTH E BLUNT IMPREZIOSISCONO UNA SOLIDA SCENEGGIATURA
Wallace Avery non ne può più della sua vita. Divorziato, insoddisfatto dell’attuale relazione e incapace di avere un rapporto col figlio, decide di fuggire con una nuova carta d’identità, a nome Arthur Newman, che rappresenta il suo riscatto. Lontano da casa, a Terre Haute in Indiana, potrà finalmente coronare il sogno della sua vita, dedicarsi al golf professionistico lasciandosi alle spalle un passato da responsabile reparto Fed Ex. L’inatteso incontro con la bella Mike, diminutivo di Michaela, più simile a lui di quanto egli stesso creda, sconquasserà il suo viaggio a bordo della stupenda Mercedes cabrio fino a fargli prendere la decisione più importante della sua vita.
Il newyorkese Dante Ariola, apprezzato regista di spot pubblicitari qui all’esordio nel lungometraggio, riesce a confezionare un road movie in piena regola tenendo ben salde le redini di una storia sorretta da un ottimo script e che ha il pregio di innescarsi senza troppi preamboli. Fin dalla prima inquadratura gli occhi di Firth in versione Avery ammettono la fuga come unica via di sopravvivenza. E pazienza se ci vogliono tremila dollari per “comprare” Newman, persona vera e defunta un paio d’anni prima; non sono i soldi il problema, lui ne ha una sacca piena. Più che un desiderio, un dovere di cambiamento. Lo deve a sé stesso, anche a costo di lasciarsi alle spalle il figlio Kevin.
In quella che risulta una vera e propria ricerca di sé stessi, l’attore premio Oscar per “Il discorso del Re” non è mai sopra le righe, risultando perfetto nel disegnare la linea caratteriale ma anche fisica che da Avery conduce a Newman. Con la bellissima e perduta Mike – una Emily Blunt che conferma ancora una volta l’enorme talento – inizia poi il gioco di identificazione nelle varie coppie che pedinano prima di arrivare a destinazione, inventandosi storie sempre diverse.
Non sono gli imprevisti, i colpi scena a farla da padrone ma i piccoli cambiamenti, quasi impercettibili, dell’animo dei due protagonisti, fino al prevedibile quanto ben costruito finale.

TIM ROTH (SUPER) PRESENTE, MA IL SUO KILLER NON CONVINCE
Adam deve ripagare il macchinone del patrigno distrutto in un incidente. Viene così mandato dallo stesso uomo, un oscuro e violento uomo d’affari, a fare d’autista per conto del composto e taciturno Roy, sicario professionista in procinto di compiere il suo ultimo lavoro. La prima giornata al volante del ragazzo si trasformerà in un susseguirsi di imprevisti e situazioni tragicomiche, spesso (apparentemente) fuori controllo anche per l’esperto killer.
Sospeso tra il thriller e una sorta di pulp-grottesco il nuovo film di Craig Viveiros, già in concorso lo scorso anno con “Gosthed”, si distingue più che altro per l’inaspettato rapporto che fin da subito si viene a creare tra il criminale esperto (un Tim Roth dalla presenza scenica devastante) e la giovane recluta, l’emergente e poco duttile attore inglese Jack O’Connel. Nonostante il film possa annoverare tra i produttori gli stessi che portarono alla luce “The Snatch”, siamo molto lontani dai quei livelli; l’impressione è che, allo stesso tempo, neanche li si voglia raggiungere. La sceneggiatura è qua è là debole, irritante quando vuole strappare a tutti i costi la risata dello spettatore.
La violenza e la verve di cui si serve Peter Mullan (altro mostro sacro) per costruire il suo boss/patrigno non si scordano, tanto da renderlo protagonista anche se presente solo in poche scene. Sulle note del brano di Fred Bongusto “Una rotonda sul mare” (vera e propria chicca del film) Tim Roth è padrone del personaggio così come dell’ottimo accento inglese creato apposta per l’occasione; il suo killer però non convince, risulta stritolato da un film che troppo spesso vuole essere esplicitamente emulo dei capisaldi del genere cui fa riferimento.

Link utili:
Torino Film Festival

 


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Categorie: Cultura

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