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13 Dicembre 2012
Zen Circus: “Non chiamateci indie”
Massimiliano “Ufo” Schiavelli, bassista del gruppo toscano in concerto domani all’Hiroshima, rifiuta le etichette e preferisce il contatto con i fan durante i concerti che attraverso i social network
Federica Spagone
Venerdì 14 dicembre arriva “La Notte della Locusta”, un triplo concerto all’Hiroshima Mon Amour, dove alle ore 22.30 saliranno sul palco tre delle migliori band italiane definite “indie-rock”: Il Pan del Diavolo, Flora e Fauna e Zen Circus, di cui abbiamo intervistato Massimiliano “Ufo” Schiavelli, uno dei componenti insieme ad Andrea Appino, Karim Qqru.
Raccontaci la tua e la vostra storia: come si è formato il gruppo?
«Siamo nella Pisa del ‘94, Andrea è alle superiori e decide di mettere su una band ispirandosi a un panorama grunge: ai tempi la formazione era differente e il gruppo si chiamava solo Zen, il Circus è arrivato dopo. Intorno al 2000 il vecchio bassista decise abbandonare; in quel periodo io suonavo con un altro gruppo ma ci fu un nostro primo incontro in Piazza dei Miracoli a Pisa: iniziammo a parlare e alla fine mi proposero di far parte della formazione, accettai ed entrai ufficialmente nel gruppo. La formazione ingranò ma dopo due anni anche il batterista decise di lasciare il gruppo. A quel punto io e Appino individuammo un nostro fan che suonava la batteria e che sembrava simpatico e facoltoso, Karim Qqru: in realtà si rivelò solo molto simpatico! Da quel momento è nata l’avventura degli Zen Circus come li conosciamo adesso e in mezzo c’è stato di tutto: abbiamo fuso vari furgoni, abbiamo preso un sacco di acquazzoni e vissuto serate storte ma alla fine è venuto fuori un buon prodotto di cui andiamo fieri».
Come nascono le vostre canzoni? L’utilizzo dell’italiano o dell’inglese è casuale o dietro c’è un progetto preciso?
«Le nostre canzoni nascono con un processo che definirei osmotico: noi passiamo molto tempo a stretto contatto per ovvi motivi e Andrea ha la capacità di sintetizzare i discorsi che facciamo nel furgone o a notte fonda in albergo e di dipingere perfettamente le cose che vediamo passando di città in città. Insomma riesce a sintetizzare tutto il detto e il non detto che c’è tra di noi. Per questo i nostri testi possono essere letti e interpretati in vari modi. Non siamo però una band politica ma se proprio volgiamo, possiamo definirci una band di rock sociale, anche se forse nemmeno questa è la definizione giusta, poiché i testi arrivano da soli e a seconda del momento abbiamo intenti differenti. L’Italiano ha iniziato a fare capolino già un po’ di anni fa con il disco “ Vita e opinioni di Nello Scarpellini, gentiluomo” che per altro è stato concepito e prodotto a Torino: è un crocevia di lingue e contiene brani in francese, in inglese e anche in italiano. Noi tre venivamo da un clima molto “centrosocial-rock” e inizialmente avevamo diffidenza nei confronti delle canzoni italiane, ma dopo questo disco Andrea ha cominciato a fare i conti con la lingua madre, l’ha interiorizzata e da quel momento è stato molto facile scrivere anche testi in italiano».
Vi definite una band indie?
«Preferiamo definirci una band artigianale perché creiamo i nostri dischi da soli e ormai l’indie è un genere staccato dall’autoproduzione, dato che ci sono band indie prodotte da grandi case discografiche. Quando andavo a sentire i concerti al centro sociale a 17 anni c’erano le vere band indie, ovvero persone che venivano tutte con un furgone solo insieme agli strumenti, suonavano, mangiavano li, salutavano tutti e se ne andavano. Era questo il vero indie, ma dato che ora il concetto è mutato certamente cerchiamo di non definirci così».
Com’è la vita di una band emergente in Italia e cosa pensi del mercato discografico italiano?
«In Italia si è sempre emergenti fino alla pensione e va bene così perché inizierò ad avere paura quando diranno che abbiamo realizzato l’album della maturità, dato che come per la frutta da matura a marcia ci va sempre poco. È necessario comunque distinguere tra il mercato e i circuiti del live. Per quanto riguarda il mercato direi che è un aspetto residuale perché i dischi sono un prodotto ormai di nicchia ed è per questo che ci definiamo artigiani: è come paragonarsi al mobiliere che si scontra con Ikea, sulla legge dei numeri ha perso ma sulla qualità magari no. Mentre il mercato del live è decisamente migliorato e ci sono ampi spazi per i gruppi indipendenti che non erano nemmeno immaginabili prima. Quando ho iniziato potevi fare affidamento solo su alcune fanzine, non si usava l’email e poi l’atteggiamento delle band per prime era molto meno impostato. Invece adesso, gruppi molto più giovani di noi partono con un atteggiamento più pragmatico ed è un bene. Anche se non sono famosi riescono ugualmente a suonare fuori dalla propria regione, magari non ci guadagnano niente ma almeno riescono a determinare una vita artistica».
Questo è il vostro ultimo tour fino al 2014, a cosa lavorerete durante questa pausa dal palcoscenico e perché questa scelta?
«È molto semplice: noi non ci siamo mai fermati dal 2004 ad oggi e ora comincia ad essere un grande sforzo. Gli album sono sempre nati tra una data e l’altra e infatti appena finiva il tour di un disco non passava nemmeno un mese che ripartivamo per quello del disco successivo e non abbiamo mai avuto il tempo materiale per fermarci e fare due conti. Ora vorremmo provare un altro approccio, ovvero partire dalla sala prove e arrivare al prodotto finito e per questo ci vuole tempo, mi rendo conto che è una cosa che tutte le band fanno e che noi invece non abbiamo mai fatto in otto anni ora è il momento».
Com’è il vostro contatto con il pubblico, pensi che social network come Facebook vi abbiano avvicinato ai fan?
«Il nostro rapporto con il pubblico è molto buono ma vorrei fare un distinguo perché con i social network il rapporto è molto superficiale anche se ha la sua importanza. Noi vediamo un ruolo centrale nel live: è il momento in cui si sintetizza l’esperienza del disco e l’esperienza dell’incontro fisico. I nostri live sono impostati in modo tale da riuscire ad avere un rapporto di familiarità con le persone. Per questo il nostro pubblico non si sente in una posizione subalterna di “spettatore versus performer”. Intendiamoci, i social network sono importanti, grazie alla nostra pagina per esempio si sono ritrovati amici che si erano persi di vista, però è nel live che c’è l’essenza della socialità ed è per questo che per tutti questi anni non ci siamo mai fermati, perché per noi è come respirare».
Cosa consiglieresti ad un ragazzo con la passione della musica che volesse intraprendere questa carriera?
«Sembrerà strano ma consiglio di indebitarsi in modo tale da avere uno stimolo per darsi da fare il più possibile, che è esattamente quello che abbiamo fatto noi e ha funzionato anche per tanti altri gruppi. A parte gli scherzi i punti salienti sono avere una formazione stabile e mantenere per un po’ lo stesso genere, fondamentale specialmente perché in Italia bisogna essere riconoscibili per crearsi una fetta di pubblico. Non avere fretta nel far uscire il proprio lavoro: è meglio far uscire un cd con cinque canzoni fatte bene piuttosto che uno con dodici fatte in modo approssimativo. Ci vuole sobrietà e non bisogna avere aspettative, se si crea una band sperando di avere il pubblico dei Muse o pensando di diventare i nuovi Led Zeppelin allora si rimarrà decisamente delusi e non si arriverà mai da nessuna parte».
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