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26 Giugno 2013

Andrea Bosca: “Se volete fare l’attore dovete studiare”

Il giovane interprete astigiano racconta la sua esperienza nel mondo della recitazione, dando qualche consiglio agli aspiranti futuri colleghi

Matteo Tamborrino

Andrea Bosca

Andrea Bosca, nato a Canelli, parla del grande amore per il suo mestiere di attore

Tutti i grandi maestri teatrali del Novecento, da Konstantin Stanislavskij ad Eugenio Barba, si sono espressi chiaramente intorno all’impegno e alla fatica richiesti dal mestiere dell’attore. Nonostante ciò nell’immaginario comune, soprattutto giovanile, le parole “spettacolo” e “recitazione” evocano sogni di gloria e di guadagno facile, immagini di lusso sfrenato e di completo spasso che sono invece ben lontane dalla realtà. Che cosa significa allora essere attori? In che modo prepararsi al meglio per diventare buoni performer della scena?
Ce ne parla Andrea Bosca, classe 1980, brillante attore piemontese, che presto vedremo in televisione – come lui stesso ci rivela – in “Romeo e Giulietta”, del regista torinese Riccardo Donna, e nel film “A testa alta, i martiri di Fiesole”, diretto da Maurizio Zaccaro.

Andrea, quando hai capito che il palcoscenico e la recitazione sarebbero diventati la tua strada? 
«A 12 anni mi sono innamorato, veramente innamorato, del teatro. Un attore che veniva da Roma tenne una lezione e mettemmo in scena, grazie alla professoressa Liliana Gatti, una persona per me speciale, “Storie di Re Mida”. Fu divertentissimo! Interpretavo due ruoli: l’ubriaco e, nella seconda parte, il Re. La versatilità mi accompagna da sempre. Poi a 18 anni, con la compagnia di Canelli, avevo già recitato in molti classici e a un certo punto mi sono detto: “Se non recito, sto male”. Così l’anno dopo, grazie al consiglio del mio mentore Renzo Arato di Asti, ho deciso di tentare il provino per l’ingresso nella Scuola del Teatro Stabile di Torino. Anni indimenticabili, quelli di Torino. Una classe di persone a cui voglio molto bene: li porto nel cuore. E con alcuni lavoro ancora».

Fin dal periodo del TST, sei venuto a contatto con grandi personalità teatrali. Che cosa porti con te dai tuoi primi anni di carriera?
«I primi anni sono stati un’ubriacatura di scommesse, insicurezze, gioia. Soprattutto il contatto con il regista Luca Ronconi, direttore della scuola, l’ho trovato fulminante: quando spiegava un personaggio era incredibile, un genio. Tutti gli altri grandi artisti che ci hanno fatto da insegnanti a scuola sono stati preziosi. Da Mauro Avogadro, ad esempio, ho imparato il monologo interiore del personaggio: ci abbiamo lavorato tanto e con pazienza. I giovani attori tendono a non interrogarsi sulle questioni proprie dell’interpretazione: “chi sono?”, “a chi mi rivolgo?”, “in che modo?”. C’è un lavoro di scavo e di conoscenza che un attore deve assolutamente affrontare. E poi ancora, la consapevolezza di essere e sentirsi artigiani, che realizzano “cose”: tutto ciò che pensi deve tradursi in pratica e deve emozionare gli altri. Se non emozioni gli altri, infatti, stai facendo un viaggio da solo. Il nostro lavoro, insomma, lo compie per metà lo spettatore, che sogna ad occhi aperti con l’attore, come l’attore».

Negli ultimi anni ti abbiamo visto protagonista di alcune fiction Rai e di ottime pellicole cinematografiche. Il successo può cambiare una persona?
«Non mi sento di poter parlare di “successo”, a meno che con questo termine non si intenda il fare il lavoro che ti piace il più a lungo possibile, mantenendo se stessi e un’eventuale famiglia. Per me il successo è soprattutto la realizzazione personale, non soltanto il riconoscimento pubblico. Ovviamente l’essere visibile ti cambia e credo che anche i soldi possano farlo; tuttavia, se rimani con i piedi per terra, puoi cambiare in meglio. Perché no? Puoi esserci per gli altri, aiutare le voci più soffocate ad esprimersi, puoi agire nel mondo. Non è mica sempre un male, altrimenti perché mai la gente lo ricercherebbe? ».

Nel 2011 hai promosso nella zona del Monferrato, insieme con Elisa Galvano, “Come vivo acciaio”, un progetto tratto da “Una questione privata” di Beppe Fenoglio. Che rapporto hai con questo grande scrittore piemontese?
«Vitale e di rilancio continuo. Anche quest’estate lavoro sul mio territorio, parallelamente a certi impegni televisivi romani. Ma Fenoglio l’ho appena assaggiato. C’è molto altro che mi piacerebbe fare. Innanzitutto, vorrei portare “Come vivo acciaio” a Roma, perché Elisa e io lo riteniamo uno spettacolo non solo circoscritto al territorio piemontese, bensì un patrimonio da estendere all’intera penisola. Siamo stati scelti come testimonial per la Candidatura Unesco di Langhe, Roero e Monferrato. Ci vogliamo far sentire! Non siamo però solo fenogliani: c’è un intero universo piemontese da riscoprire o da far scoprire. Perciò nostro compito e dare ad esso voce e corpo».

Domanda di rito: meglio il cinema, il teatro o la televisione?
«Meglio un’altra domanda: dove sono oggi le storie che possono colpire al cuore la nostra gente, donarci sogno e meraviglia, salvarci da questo grigiore indifferenziato? Quando trovo la storia giusta, allora mi pongo la domanda: “E questa come la facciamo?”. È la storia stessa ad indicarci se, per raccontarla,  sia meglio il teatro, la tv o il cinema».

Torino e il Piemonte sono all’avanguardia in fatto di proposte culturali e artistiche?
«Ritengo da sempre che le proposte del Teatro Stabile di Torino siano all’avanguardia. Ne sono molto fiero e mi piacerebbe trovare un progetto per poter tornare a collaborare. Dieci anni fa, prima della mia parabola cinematografica, facevo parte della neonata Compagnia Stabile di Torino. Il Piemonte ama la cultura ed è stata una delle prime regioni a capire che grazie ad essa non soltanto “si mangia”, ma si diventa anche importanti e apprezzati all’estero. Sono disponibile a inventare sempre nuovi spettacoli ed eventi che possano raccontarci: l’unico problema del piemontese doc è che è schivo, non si pubblicizza come dovrebbe e potrebbe. Ma ci stiamo lavorando. Siamo una generazione molto agguerrita. Diciamo che la crisi non l’avrà vinta facilmente: i giovani piemontesi investiranno le proprie energie per promuovere sé stessi».

Per finire, quali consigli ti sentiresti di dare ai giovani che vogliono intraprendere un cammino simile al tuo?
«Iniziare presto, lavorare tanto, essere pratici. I giovani attori dovranno entrare nell’ottica che, per almeno dieci anni, saranno obbligati a fare contemporaneamente due lavori, perché non si campa di questo mestiere all’inizio, e soprattutto convincersi che le scuole di recitazione servono davvero. Il livello degli attori italiani sarebbe più alto se ci fosse una maggiore formazione. Bisogna studiare, formarsi, superare prove di sbarramento, altrimenti ai provini si crolla. Le scuole possono essere dure, ma almeno scremano: nessuno si prende la responsabilità di mandare avanti chi non ha quel “qualcosa” che lo mantenga sul mercato artisticamente sveglio e vivo per anni. Bisogna fare molta pratica, perché la maggior parte delle domande trovano una risposta solo con il tempo e la maturità. Bisogna sempre chiedersi: “Ma io, che cosa racconto? A chi lo racconto? E questa storia, come la racconto?”».

Link utili:
Andrea Bosca – Sito Ufficiale


Amate recitare? Vorreste percorrere anche voi il sentiero del cinema o del teatro?

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Categorie: Cultura

Commenti (3)

  1. Massimo ha detto:

    Mi piacerebbe davvero molto recitare, ma compio solo 17 anni il 24 agosto. Negli anni a venire spero di riuscire a fare qualcosa. Saluti !
    Massimo, 13 Luglio 2013, Ferrere d’Asti.

  2. Briana ha detto:

    Io ho solo 13 anni ma la voglia di recitare è tanta dentro di me…I miei genitori mi hanno detto che bisogna studiare davvero molto e ora che ne sono convinta darò tutta me stessa per riuscire a diventare un’attrice; la maggior parte delle persone mi scoraggia e dice che non potrò mai diventarlo,anche i miei genitori! Dopotutto non ho mai studiato teatro e nell’unica recita che ho fatto,era in 3 elementare,non ho neanche fatto una parte importante 🙁
    Penso che il primo passo nell’avere una carriera sia non dare retta a quelli che non credono in te e impegnarsi..infatti quest’anno studierò teatro alle superiori 🙂 beh..auguratemi buona fortuna allora!

  3. Martina Mantovanelli ha detto:

    Sono convinta che la recitazione sia la più grande fonte di cultura che ci possa essere ed io, da curiosona quale sono non riesco a restare lontana dalla conoscenza e quindi il teatro. Il mio sogno è diventare un’attrice di teatro, ma penso che non sia possibile perché purtroppo la paura di mettermi in gioco è tanta.

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