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3 Luglio 2013

La protesta turca in Piazza Castello

Domenica alcuni giovani turchi sono stati fermi in silenzio contro la repressione del governo Erdogan: l’opinione di una studentessa di Istanbul

Nicola Veneziano

Protesta turca

I ragazzi turchi domenica in Piazza Castello per manifestare contro la situazione nel loro paese

La parola passa ai giovani turchi. Non si parla di un movimento interno ad un partito italiano, ma di ragazzi e ragazze turchi che osservano da Torino ciò che sta succedendo nel loro paese e cercano di mobilitare la sensibilità delle persone; perché anche se ormaiper i media le manifestazioni di protesta sono passate in secondo piano – si sa, le notizie sono come ospiti e pesci: dopo un mese puzzano – a Istanbul e nelle altre città turche la protesta contro il Governo di Erdogan non si placa.
Nel pomeriggio di domenica, accanto ai grossi stand della NBA, in piazza Castello si potevano notare alcuni ragazzi con dei cartelli e una bandiera turca: erano giovani turchi, in passiva protesta e in solidarietà con le azioni di disobbedienza civile che avvengono ora a Istanbul.
«In Turchia il governo ci sta privando di tutte le libertà, hanno già messo in prigione molti giornalisti e artisti» spiega Fatih, musicista. Esril, studentessa al Politecnico con un cognome pesante, Erdogan, denuncia l’incapacità della classe politica turca: «Non c’è nessun leader in questo momento in Turchia che rappresenti i manifestanti. Servirebbe un partito più democratico, la speranza è che ora i giovani si siano svegliati e votino alle prossime elezioni». Fra i ragazzi c’è anche un’italiana, Enrica, che ci offre un punto di vista esterno: «E’ un dovere per noi informarci, in Italia per questo genere di cose c’è troppo egoismo, finché non siamo coinvolti non ci interessa. Questi ragazzi cercano di spiegare che nel loro paese c’è un capo eletto che non ascolta il suo popolo e che l’Islam non è solo estremismo». Fra le persone che si fermano c’è anche Samet, a Torino per lavoro; si ferma e chiacchiera con i ragazzi e poi racconta alcune testimonianze: «Un mio amico a Istanbul avrebbe dovuto prendere un taxi, ma la polizia aveva chiuso la piazza per impedire alla gente di andare via. Ecco a che punto è arrivata la repressione».
Per capire meglio la situazione parliamo con Ilgi, una giovane studentessa di Istanbul residente a Torino, che in questo periodo si sta prodigando per spiegare ai torinesi – e non solo – cosa succede in Turchia.

Quali sono le cause che hanno portato alla protesta di Gezi Park?
«Comincia tutto prima di Gezi Park, le cause sono da trovare nella mancanza di democrazia, nel dislivello economico, nella corruzione politica e nell’ingerenza a livello sociale dell’attuale governo».

Ci puoi fare alcuni esempi?
«I media in Turchia appartengono al governo, la popolazione però, pur sapendolo ha fatto finta di niente, nel frattempo con la crisi il dislivello economico fra ricchi e poveri è ancora aumentato. Il nostro governo è molto corrotto e non ci sono opposizioni politiche serie a Erdogan. Ma il problema maggiore è quello sociale: la Turchia è un paese di religione islamica, ma molto laico, mentre l’attuale governo è l’opposto: religioso fino all’estremismo e poco laico. Mia madre mi diceva che negli anni ’70 una ragazza poteva girare a Istanbul con la minigonna senza problemi, ora se un ragazzo e una ragazza stanno abbracciati la polizia impone loro di dividersi. Si può dire lo stesso sull’alcool, che non si può bere dopo le 10 di sera e in molte zone è proibito. Sono solo alcuni esempi che spiegano cosa sta succedendo in Turchia».

La scintilla è stata però Gezi Park.
«Gezi Park è una piccolo parco di Istanbul, una delle poche aree verdi della città dove però il governo ha deciso di costruire un centro commerciale: è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. I giovani sono scesi in piazza a protestare e la repressione della polizia è stata molto violenta. Ci sono stati quattro morti, molte persone hanno perso la vista per i gas, dei bambini si sono ritrovati con la pelle bruciata a causa di reagenti chimici nell’acqua: la repressione di Erdogan è feroce. Ora la protesta è diventata reazione passiva: migliaia di persone rimangono in piedi e ferme e si lasciano prelevare dai poliziotti, senza nessuna reazione».

I social network hanno un ruolo nella protesta, come è capitato in altri paesi?
«Certo, non si poteva scendere in piazza senza uno smartphone. I media turchi non ne parlano e mandano in tv dei documentari: l’unico modo per ottenere delle immagini dalla piazza è attraverso i cellulari e i social network, con i quali i manifestanti si danno indicazioni sui movimenti della polizia e strade da evitare. Inoltre si sono formati dei forum dove ognuno può esprimere liberamente la propria opinione».

Voi che siete in Italia partecipate alle proteste?
«Sì, informiamo, cerchiamo di spiegare cosa sta succedendo e perché. Abbiamo fatto una manifestazione a Milano e una a Torino. Chiaramente si può fare poco da lontano, ma qualcosa succede: un’azienda, che ha preferito rimanere anonima, si è offerta di aiutare gratuitamente quelli che hanno perso la vista».

La protesta in Turchia è più vicina all cosiddetta Primavera Araba o a Occupy Wall Sreet?
«A nessuna delle due in realtà, ma ci tengo a precisare che non ha niente a che vedere con la Primavera Araba perché la Turchia ha una lunga storia di repubblica democratica e laica, non è una protesta contro l’Islam, ma contro l’attuale governo».

In piazza Castello, fra i baskettari, alcuni curiosi si fermano, osservano i ragazzi e leggono i loro cartelli. Forse il loro messaggio è passato.

 

Qual è la vostra opinione sulla situazione turca?

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