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17 Febbraio 2014

La filosofa Donatella Di Cesare: “Israele richiama il declino dell’idea di stato-nazione”

Intervista all’autrice di “Israele. Terra, ritorno, anarchia”, che nel pomeriggio dialogherà sul tema con l’eurodeputato e filosofo torinese Gianni Vattimo

Tommaso Portaluri

Oggi alle 17,30 a Palazzo Nuovo la filosofa Donatella Di Cesare presenta il suo ultimo libro

Donatella Di Cesare è professore ordinario di Filosofia teoretica all’Università La Sapienza di Roma. Oggi pomeriggio alle 17.30 – a Palazzo Nuovo, ex-Sala lauree di Giurisprudenza, piano atrio – con Gianni Vattimo, filosofo ed europarlamentare, presenterà il suo ultimo libro, “Israele. Terra, ritorno, anarchia“, edito da Bollati Boringhieri.
Il saggio rappresenta una sfida filosofica e politica assieme. Una delle tesi di fondo è che l’attualità del “caso Israele” oggi non è legata soltanto al guerreggiare delle armi e delle bombe, di cui purtroppo i giornali ci testimoniano la presenza ma che, sul piano geopolitico, la vera posta in gioco è rappresentata dal fatto che il “caso Israele” richiami il declino intero dell’idea di stato-nazione e dei nazionalismi connessi. Le ricadute sul piano politico, come si può immaginare, non sono irrilevanti.
In attesa di partecipare oggi pomeriggio alla conferenza, abbiamo pensato di fare una chiacchierata con l’autrice.

Per secoli la politica si è fondata, agita e pensata sulla nozione di stato, che oggi, nell’epoca della globalizzazione, pare venir meno. Quale può essere il ruolo, in questo contesto, del “caso Israele”?
«Ho cercato di prendere le distanze dalla cronaca dell’attualità per poter riflettere su una questione così complessa e delicata. A ben guardare in Italia, ma in fondo anche in Europa, manca un dibattito serio e approfondito sul Medio Oriente. Tutto si riduce a una cronaca, spesso molto di parte, che non aiuta né a ricostruire la storia né tanto meno a offrire gli elementi per un dibattito. Direi che finora hanno prevalso la geografia e la questione viscerale dei confini misurati con il centimetro. E questo in una terra dove sono decisive, con la storia, la teologia e la politica. Perciò, a me pare che il “caso Israele” vada letto nel contesto della globalizzazione. Ha aperto la strada la filosofa Hannah Arendt. Imprescindibili sono le sue riflessioni non solo sullo stato-nazione, ma anche sul sionismo e soprattutto sull’ipotesi binazionale sostenuta da Buber e Magnes. Lei era già allora contraria, perché si rendeva conto che dove si fa prevalere la nazione, c’è poco spazio per i popoli, e dove si fronteggiano gli stati, la guerra è inevitabile. Dovremmo dunque vedere nel tramonto dello stato-nazione, che sperimentiamo qui ogni giorno, una chance per il Medio Oriente. In altri termini, io non credo alla soluzione “due popoli, due stati”. Ritengo che si tratti solo di un espediente della politica internazionale per rinviare continuamente le trattative e dare l’impressione che il problema possa essere risolto fra gli stati-nazione. Al contrario, è evidente che la spartizione è ormai impossibile. Sebbene da un lato gli israeliani costituiscano una società post-nazionale e i palestinesi una società proto-nazionale, proprio per questo l’ipotesi dei due stati è di fatto già superata. Paradossalmente gli utopisti, in senso negativo, sono coloro che fanno credere che ciò sia realizzabile. Solo in una prospettiva che oltrepassi lo stato, e ripensi i concetti di comunità e di cittadinanza, si può aprire un nuovo capitolo. In questo senso l’emergenza di Israele nel mondo è per me l’emergere di tempi nuovi. È la possibilità esemplare di un superamento anarchico dell’ordine stato-centrico del mondo».

Nel suo libro lei parla di Israele come «laboratorio politico della globalizzazione», cioè un luogo nel quale si mette in discussione la nozione di identità fondata sul radicamento a un territorio.
«La sfida di Israele è quella di testimoniare un modo altro, differente di abitare, cioè di esistere. All’inizio del mio libro cito un versetto di Levitico a cui sono molto affezionata: “Mia è la terra, perché voi siete stranieri e residenti provvisori presso di Me”. La parola ebraica è gherim, che vuol dire appunto “stranieri residenti”. Siamo ormai abituati a prendere il diritto romano come se fosse l’unico diritto della storia, quasi un diritto naturale. Ma il diritto ebraico, sopravvissuto grazie alla Torah, sebbene l’impero romano abbia sconfitto Israele, non si fonda sulla proprietà privata della terra. Il ritmo del sette – il settimo anno, cioè l’anno sabbatico, e poi il quarantanovesimo, cioè l’anno dello Yovel, del Giubileo – scandisce il tempo in cui le terre prese in affitto vanno restituite. Scaturisce peraltro da qui il concetto di rivoluzione permanente. Se non è prevista la proprietà privata definitiva, è perché tutti devono abitare sulla terra senza identificarsi, come stranieri residenti, mantenendo una estraneità e una separazione. Solo così si può accogliere l’altro. Questo vale anche per i palestinesi che, a loro volta, rivendicano in modo nazionalistico la proprietà e si sentono espropriati. Sulla terra nessuno è autoctono; non c’è il diritto del nativo e dell’indigeno. Perché sul luogo in cui ci troviamo, siamo già stati preceduti da altri. Israele testimonia il vuoto su cui poggiano tutte le nazioni. Perciò è il laboratorio della globalizzazione».

Molte pagine del suo libro sono dedicate all’esperienza dei kibbutzim, ossia a quei laboratori politici che hanno tentato di costruire l’Israele storico, come un’entità profondamente diversa da quella che si è realizzata. Che cosa è utile riscoprire di quei progetti?
«Per questo libro è stata molto importante per me la lettura dei testi di Gustav Landauer, protagonista della Repubblica dei Consigli, l’unica rivoluzione anarchica della storia. Figura straordinaria del pensiero politico ebraico, Landauer viene oggi riscoperto in Germania, negli Stati Uniti, e da poco anche in Italia. Il suo comunismo anarchico ha ispirato i kibbutzim che sono nati sulla sua idea di comunità, ma anche sull’idea della rivoluzione permanente. Landauer aveva intuito lo scontro tra uno stato mondiale, una sorta di Golem, e una “comunità di comunità”. Oggi questo scontro è attualissimo: da un lato lo stato mondiale, dall’altro la possibilità di una grande kibbutz, sempre decentrato, che si articoli in tanti, molteplici e differenti kibbutzim. Il socialismo di Gerusalemme non è naufragato. È stato soffocato dalla politica pragmatica di una sinistra che, anche in Israele, ha lavorato e lavora per una normalizzazione. I temi della giustizia sociale, del diritto d’asilo, della cittadinanza e dell’ospitalità sono oggi all’ordine del giorno. La sinistra ha bisogno in Israele, ma a dir vero ovunque, di recuperare l’insegnamento del comunitarismo anarchico».

L’ultimo capito del libro è dedicato al tema della pace. Esiste oggi un modo radicale di porre il problema, in chiave storica e filosofica?
«Credo che ci sia un pacifismo che, magari inconsapevolmente, sposa la logica della belligeranza e concepisce la pace come l’esito di un faticoso superamento della guerra. D’altra parte la filosofia, da Eraclito a Kant, ci ha insegnato a vedere così la pace, in negativo, come la negazione della guerra. Si dovrebbe invece provare finalmente a capovolgere la prospettiva. Perciò io parlo di una “pace anarchica” che interrompe quel circolo che va dalla guerra alla guerra. Non è la pace della non-aggressione, che usa la guerra preventiva per assicurare a ciascuno la propria posizione; piuttosto è la pace della non-indifferenza, dell’ospitalità nei confronti della differenza dell’altro, che irrompe d’improvviso interrompendo il tempo».

Link utili:
Locandina dell’evento
Libro di Donatella Di Cesare 

Parteciperete all’evento di oggi pomeriggio? Che cosa pensate del “caso” Israele?

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Categorie: Cultura

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