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28 Ottobre 2014

Il cibo migrante

Nel mondo le persone si spostano, portandosi dietro le proprie tradizioni alimentari, che finiscono col fondersi con quelle di dove si va a vivere

V.M.

Le migrazioni di popoli sono anche migrazioni di tradizioni alimentari

Nel 2010 Slow Food ha dedicato l’intera edizione di Terra Madre al legame tra cibi e territorio e anche quest’anno, nella giornata di chiusura, è stato dato spazio al tema, in una conferenza dal titolo “Cibo senza territorio”. A guidare il dibattito è stato Simone Cinotto, professore di Storia contemporanea all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo.

GASTRONOMIE MIGRANTI
Nel corso del seminario sono stati forniti diversi esempi di comunità che hanno sviluppato la loro cultura gastronomica da emigrati, lontano dalla loro terra d’origine. Primo fra tutti ha preso parola Rafram Chaddad, giornalista e artista israeliano nato a Tunisi, che ha dichiarato di portare con sé elementi di entrambe la culture gastronomiche, quella israeliana, così varia e diversificata, e quella tunisina, più circoscritta. Un aspetto molto importante su cui si è concentrato Chaddad è stato quello della necessità di trovare un equilibrio tra la convergenza di stili culinari, legata all’ormai diffusa convivenza tra diverse etnie, e la conservazione delle proprie tradizioni locali: «Per far sì che non si corra il rischio che certi cibi e certi prodotti spariscano, occorre valorizzarli, avere cura del territorio. E parallelamente occorrerebbe fare in modo che anche i migranti conservino le loro tradizioni quando cambiano paese: questi valori sono molto importanti».
Un altro intervento molto significativo, incentrato sul rapporto tra cibo, memoria e identità, è stato quello di Kevin Mitchell, chef, docente del Charleston Culinary Institute ed esperto di cultura gastronomica afro-americana. Mitchell ha raccontato l’affascinante storia delle abitudini alimentari degli afroamericani, formatesi in particolare momento storico: quello dello schiavismo nelle piantagioni americane. I neri trapiantati in America ebbero la possibilità di portare con loro pochi ingredienti (come ad esempio le nocciole), che vennero in seguito mischiati con gli alimenti trovati nel nuovo territorio per creare dei nuovi piatti. «Non fu solo una diaspora di un popolo – ha raccontato Mitchell – ma anche una diaspora di ingredienti». La mescolanza tra i prodotti portati dagli schiavi neri in America e i prodotti locali ha portato alla nascita dei cibi che oggi vengono consumati abitualmente, a testimonianza del fatto che molto spesso le cose che cuciniamo hanno una storia ben precisa, che deriva dall’influenza di popoli diversi dal nostro.

IL CIBO CHE UNISCE
Hedai Offaim, editorialista del quotidiano Haaretz, nel corso della conferenza ha detto una frase molto importante: «Il cibo è qualcosa che unisce culture diverse e storie diverse».
Un perfetto esempio di questa filosofia è stato raccontato da Rachel Black, che ha portato una storia che ci riguarda da vicino, quella del mercato di Porta Palazzo. La Black, antropologa dottoranda presso l’Università di Lione, è una grande conoscitrice delle comunità marocchine che vivono a Torino, grazie al lavoro condotto a Porta Palazzo dal 2001 al 2004: «E’ un posto molto affascinante -ha detto – infatti è il luogo degli alimenti dei migranti, degli alimenti senza territorio». Grande attenzione, nella sua analisi, è stata data al mercato come luogo di incontro tra le persone, come luogo di scambio e condivisione, anche culturale, e luogo di accoglienza. Porta Palazzo è sempre stato un posto in cui i migranti possono avere le possibilità di ritrovare i prodotti della propria terra: prima degli extra comunitari, infatti, erano i meridionali emigrati a Torino che andavano in questo mercato per ritrovare il loro cibo.
L’importanza del mercato di Porta Palazzo è stata ulteriormente sottolineata da Simone Cinotto: «Quando a Porta Palazzo sono arrivati gli alimenti del sud Italia, sono cambiate radicalmente le abitudini alimentari degli abitanti di Torino. Posso dire che Porta Palazzo è l’incubatore dell’innovazione gastronomica torinese».

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