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18 Febbraio 2015
Se l’antropologia è donna
L’esperienza di due giovani studiose di Antropocosmos, associazione che cerca di applicare in concreto la scienza dei comportamenti dell’individuo nella società
Claretta Caroppo e Antonella Capalbi
Antropocosmos è un’associazione culturale fondata a Torino da studentesse giovani e appassionate, nata con l’obiettivo di rendere l’antropologia – disciplina che studia l’individuo e i suoi comportamenti all’interno della società – qualcosa di vivo, attraverso l’approfondimento e la ricerca sul campo in diversi ambiti e contesti: scuola, sanità, spazi urbani, comunicazione, migrazioni, politiche sociali e culturali.
Abbiamo intervistato Ilaria Bonelli, tra le fondatrici dell’associazione e, via mail, Francesca Rindone, al momento impegnata in una delle attività di ricerca condotte in Sudamerica nell’ambito del progetto Arti e Mestieri nel Chaco Argentino.
Ilaria, innanzitutto che cos’è Antropocosmos e come è nata l’idea dell’associazione?
«Antropocosmos è un progetto nato nel 2009 da 7 studentesse di antropologia dell’Università di Torino con l’idea di scommettere sulla disciplina che stavamo studiando ed è diventato ufficialmente un’associazione culturale nel 2010. L’idea è quella di rispondere attivamente alla necessità di “fare antropologia”, ovvero di portare la nostra professione sul campo e farla uscire dall’Accademia che è l’ambito predominante entro cui si mantiene. Oggi Antropocosmos è costituita da antropologi e professionisti di discipline affini, con cui costruiamo collaborazioni e progettualità socio-culturali».
Qual è la vostra idea di antropologia?
«Crediamo che possa essere una risorsa importante per la comprensione della realtà nella sua interezza e quindi una base su cui costruire, in un assetto interdisciplinare o multidisciplinare, i presupposti per la trasformazione socio-culturale. Il nostro tentativo è quello di creare un trait-d’union tra la ricerca, il principio di qualità e solidità della disciplina, e la realtà, a cui sono destinate le riflessioni, le analisi e le azioni successive. Siamo una realtà atipica e in Italia si contano sulle dita delle mani le associazioni di antropologi. Abbiamo quindi dovuto immaginarci un’identità, degli obiettivi specifici e una metodologia operativa, che non fosse solo quella usata per la ricerca, per portare le nostre idee nei progetti e nelle collaborazioni. Stiamo crescendo come professionisti nel terzo settore, formandoci e imparando da altre realtà affini e dai nostri errori».
Quali sono i progetti in corso?
«Siamo in una fase di rilancio bellissima. Abbiamo appena dato l’avvio a un progetto nato dalla cooperazione con Edisu Piemonte, finalizzato a migliorare la qualità di vita degli studenti residenti presso le strutture Edisu, attraverso il lavoro in équipe interdisciplinare che conta antropologi e psicologi. Inoltre stiamo mettendo le basi per implementare i progetti di cooperazione in Chaco e per avviarli in Salvador. Infine una gran parte dell’Associazione sta lavorando per la diffusione delle ricerche antropologiche attraverso prodotti audiovideo».
Avete una sede a Buenos Aires: l’America Latina appare così lontana e al contempo così vicina. Voi come la vedete?
«L’America Latina è la nostra seconda casa, per alcune di noi, è la sede operativa di progettazione. Per questo motivo abbiamo uno sguardo sempre molto presente e cerchiamo di portare il nostro contributo, a partire da una profonda conoscenza e dalle reti che abbiamo costruito lì negli anni. Attualmente il nostro progetto principale, nell’ambito della cooperazione, è costruito insieme alle comunità indigene del Chaco, una regione del nord dell’Argentina ed è quello di cui si occupa Francesca».
Francesca, ci parli meglio della tua ricerca?
«La mia ricerca si è concentrata nel Chaco argentino, zona nord-est al confine con il Paraguay, meglio conosciuta come “Impenetrabile” e mi sono occupata principalmente di cooperative di lavoro al femminile create dalle mujeres cesteras, definizione che si riferisce alla loro attività artigianale principale, la produzione di cesti. L’obiettivo era duplice, ricerca e cooperazione. Da questo punto di vista il progetto si concretizzava nel seguire passo per passo sia la nascita delle nuove cooperative artigianali nei parajes, “borgate” molto lontane dai centri abitati, sia la produzione e la vendita dei cesti prodotti».
Ritieni che concrete possibilità di “fare antropologia” siano diffuse al di fuori dell’ambito accademico?
«Per quel che riguarda la mia esperienza personale posso dire che non ci siano tante altre realtà come Antropocosmos, che tra l’altro sta trovando molte difficoltà nel portare avanti i suoi progetti per problemi di finanziamenti: è un dato significativo se si pensa che comunque le possibilità di fare ricerca al di fuori dell’ambito universitario sono pur sempre molte di più rispetto alle possibilità di farlo all’interno. Dico questo mettendo a confronto l’ambito accademico italiano, in cui gli antropologi vengono formati solo ed esclusivamente con la teoria per poi trovarsi a cercare disperatamente un’opportunità di fare ricerca, con quello spagnolo e argentino, dove invece il rapporto tra studente e ricerca sul campo è costante ed evolve man mano che prosegue negli studi».
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