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25 Febbraio 2015

“Dare una voce alle periferie”

L’antropologo torinese Dario Basile suggerisce che solo ascoltando chi vive nelle zone più difficili della città si possa arrivare a soluzioni efficaci

Matteo Fontanone

Una periferia di Torino sud in una foto d’epoca

L’11 febbraio Digi.TO pubblicava un piccolo viaggio sulla situazione delle periferie (anche) torinesi, dall’ex Moi a via Artom. Più recente è invece la notizia, sempre a Torino ma nel quartiere della Falchera, della tredicenne sottoposta ad abusi di gruppo e ricattata dai compagni di classe: erano in tanti nel quartiere a conoscere ciò che accadeva, ma nessuno ha mai alzato un dito per impedirlo.
Continuiamo quindi a parlare di periferie torinesi con Dario Basile, antropologo da sempre interessato alle problematiche sociali dei quartieri difficili, in libreria da novembre con il saggio Le vie sbagliate.

Il volume racconta le tante storie di chi fin dall’infanzia ha vissuto le periferie torinesi.
«Le periferie, a Torino, nascono dall’esigenza oggettiva di dare una casa ai tanti che ne avevano bisogno ed erano costretti a soluzioni precarie, come le baracche o la condivisione di più famiglie dello stesso tetto. Quest’urgenza viene risolta con la costruzione di grossi lotti di case popolari alle periferie delle città. I miei studi riguardano le seconde generazioni, i figli degli immigrati costretti a vivere nelle periferie. Nati in un ambiente difficile, cresciuti quasi in isolamento all’ombra dei palazzi, senza i più basilari centri di aggregazione. Le stesse scuole non sono nient’altro che dei prefabbricati, sorgono da un giorno all’altro e vengono frequentate esclusivamente dai figli degli immigrati. Si crea un circuito chiuso che non giova alla buona integrazione dei ragazzi né tantomeno alla loro carriera».

Quando la città si è resa conto di dover intervenire?
«Prendiamo via Artom, esempio emblematico della gestione delle periferie da parte della città di Torino. I complessi abitativi di via Artom vengono costruiti nei primi anni ’60. Nei successivi quindici anni, fino all’intervento di Novelli nel ’75, l’impressione è che la città se ne fosse completamente dimenticata. Novelli riceve dall’allora Presidente del Tribunale dei Minori una lettera che sollecita l’intervento nei quartieri più emarginati. Lui stesso, per sua ammissione, non era a conoscenza di ciò che succedeva in quella zona. Interviene per arginare i problemi di bande, microdelinquenza e disadattamento giovanile. Lo stesso accade anche in altre zone di Mirafiori, come via Roveda, e alle Vallette, quartieri la cui genesi è la stessa. Gli interventi dell’amministrazione pubblica negli anni Settanta, tuttavia, hanno funzionato solo a metà, al limite come palliativi. Gli stessi problemi dell’epoca, ed è la situazione di oggi a confermarcelo, permangono».

Di che tipo di interventi parliamo?
«In quegli anni è simbolica la nascita dell’Estate Ragazzi, nel tentativo di cucire per quanto si potesse il tessuto sociale; vengono coinvolti anche Don Ciotti e il Gruppo Abele. In generale, si cerca di migliorare le strutture sanitarie e di potenziare il sistema scolastico. Prima dell’intervento comunale, l’unico presidio di quelle zone era costituito dalle sole parrocchie. La riqualificazione della zona però ha vita breve, ancora oggi i politici di oggi si giustificano  con l’assenza di fondi e risorse: è vero, ma non è una scusa per lavarsene le mani. Intervenire sulle periferie è un investimento a lungo termine, nella fattispecie il lavoro sui ragazzi di strada».

Spesso si ha l’impressione che le condizioni di chi vive ai margini delle città interessi relativamente poco.
«Delle periferie l’opinione pubblica parla solo quando queste insorgono: il mio libro è uscito a novembre, nello stesso periodo delle rivolte di Roma. In quel momento l’attenzione era altissima ma, affievolite le tensioni nei quartieri, si è considerata chiusa una questione che in realtà è apertissima. La periferia è da sempre nido di tensioni e ingiustizie: nascere in una determinata zona e vivere un determinato ambiente sociale influisce molto sulla carriera futura».

Tornando a via Artom, qual è la sua chiave di lettura alle recenti proteste anti-zingari?
«La lotta ai rom, in questi casi, costituisce sempre un sintomo, mai la malattia vera e propria. Quello che si cela dietro all’intolleranza verso gli zingari è una ferita di decenni che parla di emarginazione e di assenza di servizi. Ancora oggi, quanti cinema ci sono a Mirafiori, quanti teatri? Esattamente come agli inizi, quello che manca alle periferie sono le strutture sociali e aggregative presenti in tutti gli altri quartieri. Quello che ne scaturisce è la classica guerra tra i poveri, la paura dello straniero: ci si scaglia contro il debole perché è l’unico bersaglio a disposizione».

Secondo lei esistono soluzioni immediate da mettere in atto per e nelle periferie, anche con poco budget?
«Tralasciando per un attimo le misure a lungo termine, che è ovvio siano di più difficile attuazione, oggi è importante fare in modo che tutti abbiano una voce attiva, dare ai quartieri periferici un megafono funzionante attraverso cui far conoscere i problemi in corso e discuterne. Un ruolo centrale in questo meccanismo appartiene alle circoscrizioni, le sole entità attraverso cui i residenti possono aggregarsi davvero e riuscire a parlare con le istituzioni. I provvedimenti devono essere pensati dalle periferie stesse, non cadere dall’alto: le soluzioni passano per forza di cose dal dialogo».

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Categorie: Ambiente, Intercultura

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