Home » Cultura » Zerocalcare, il disegno come riscatto e denuncia
12 Marzo 2015
Zerocalcare, il disegno come riscatto e denuncia
Nei due incontri con i fan torinesi organizzati dal Salone Off 365, il fumettista romano ha raccontato l’origine della sua arte, un successo che non si aspettava
Matteo Fontanone
Nelle giornate del 10 e 11 marzo Michele “Zerocalcare” Rech, 35 anni, uno dei casi editoriali più felici dell’anno trascorso, è stato a Torino per presentare la sua ultima fatica Dimentica il mio nome. Le due date, rispettivamente al Cecchi Point e alla Fabbrica delle E, per il fumettista sono state anche un’occasione in cui confrontarsi con il suo pubblico più giovane: martedì i ragazzi del Salone del Libro, mercoledì quelli dell’Istituto Plana. Digi.TO era presente all’incontro di ieri mattina.
IL CONFRONTO CON GLI STUDENTI
Gli studenti del Plana, coinvolti grazie alla collaborazione del Salone Off 365 con le circoscrizioni di Torino, si susseguono al microfono con le domande più varie. Ognuno, durante il percorso di preparazione svolto insieme alle insegnanti e alla Scuola Holden, ha le sue curiosità: chi più letterarie, chi più legate al fumetto come lavoro quotidiano. Zerocalcare è un ragazzo umile, a volte dà l’impressione di essere schivo a causa della timidezza. Si trova bene con i ragazzi perché è come loro, si prende poco sul serio e non sa ancora quello che vuole fare da grande. Ride imbarazzato quando gli viene chiesto se nella sua comicità ci sia qualcosa di Pirandello; nonostante il pudore, crea empatia e rompe il ghiaccio strappando sorrisi.
Gli viene chiesto quale sia stata la molla per iniziare a scrivere fumetti in maniera continuativa: «Il disegno per me è sempre stato un grande mezzo d’espressione. Da ragazzo disegnavo per i fatti miei, in camera, col passare degli anni anche nei centri sociali. Nell’estate del 2001 con un po’ di amici sono stato al G8 di Genova. Da lì, ho sentito l’esigenza di incanalare nel disegno le sensazioni, le violenze, tutto quello che ho visto in quei giorni».
Rech va fiero della cultura popolare, per certi versi mainstream, con cui è cresciuto. Star Wars, le merendine, i primi cartoni giapponesi: tutto il patrimonio di una generazione – quella adolescente negli anni ’90 che adesso ha più di trent’anni – a cui si rivolge nelle sua graphic novel. Parla dei suoi riferimenti come «trasversali, diventati talmente famosi da essere comprensibili per chiunque, anche gli adolescenti e i ventenni di oggi. Sono dei bagagli collettivi in cui tutti si riconoscono». Cresce a Rebibbia, quartiere di Roma popolare e verace, nonché presenza geografica fondamentale per le sue storie: «Essendo i miei fumetti essenzialmente autobiografici, e trascorrendo io a Rebibbia la gran parte della mia vita, senza il quartiere non avrei proprio nulla da raccontare».
L’ARTE DEL DISEGNARE
Quando gli viene chiesto quale sia il personaggio che più l’abbia ispirato, Michele non ha dubbi: «Con i suoi lavori, Gipi ha alzato di tantissimo l’asticella della qualità. Per tutti gli altri fumettisti, me compreso, è una bella sfida. E a pensarci bene è anche una bella sfida rivelare di avere dei riferimenti così bravi. Ho sempre paura che poi mi si chieda com’è possibile che leggendo queste belle cose io riesca comunque a fare così schifo a confronto!».
In merito all’ultima novel, Dimentica il mio nome, un ragazzo del Plana gli chiede perché tutto sia in bianco e nero tranne le volpi: «Come facilmente intuibile – risponde Zerocalcare – le volpi costituiscono l’elemento di diversità. Le ho volute colorare perché mi piace pensare a loro, al personaggio che nel mio fumetto incarnano, come quelli che, prima l’avvento della tecnologia che tutto vede e tutto controlla, vivevano ai limiti. Ai margini di qualunque cosa: della legalità, della società, dell’esistenza stessa».
Nonostante le tematiche trattate da Zerocalcare non siano delle più felici – il pessimismo e il cinismo di una generazione senza punti di riferimento, la vita di quartiere tendente all’oblio, la fine dell’adolescenza – il fumettista si dice «terrorizzato di passare per un emo o per qualcuno che ama piangersi addosso». Per questo la leggerezza, gli elementi buffi e le strisce divertenti, cifra stilistica dell’autore, sono così importanti: «Sono degli elementi che spesantizzano, se così si può dire, che mi piace sbriciolare nei fumetti per evitare che siano una cosa triste e noiosa».
ZEROCALCARE SU SE STESSO
Riguardo alla sua età anagrafica, ancora una volta esce fuori la semplicità dell’artista: «A dire il vero, fino a tre anni fa non sapevo nulla di cosa significasse l’età adulta. Sono andato a vivere da solo quattro anni fa, senza sentire un granché il passaggio: galleggiavo, lavoravo a progetto, mai più di sei mesi di fila e senza garanzie di stabilità. Sentirsi adulto in queste condizioni non è facile – continua – ancora adesso è strano pensare a me stesso come uno che vive di fumetti, nonostante siano la mia fonte di reddito principale. So benissimo che anche questo clamore intorno alla mia figura prima o poi si sgonfierà, non ho l’ambizione di campare tutta la vita con le graphic novel».
Zerocalcare, il successo, non l’aveva nemmeno previsto: «Sono cresciuto nella marginalità dei centri sociali. In più, marginalità nella marginalità, appartenevo alla sottocultura punk. In più, marginalità nella marginalità nella marginalità, ero un punk straight edge, di quelli che per scelta non bevono, non fumano e non si drogano. Come potevo aspettarmi il successo?».
Gli viene chiesto, infine, un ricordo del suo viaggio a Kobane, in Siria, a cui è seguito un reportage-fumetto pubblicato da Internazionale: «Sono stato lì con una carovana di aiuti e sostegno alla popolazione curda, Rojava Calling. Quando ero in quelle terre, ricordo che si combatteva strada per strada, si difendeva ogni angolo. Adesso la città e liberata, finalmente. Un giorno mi piacerebbe tornare, per scrivere della rinascita e del tempo di pace».