Home » Cultura » Le crisi viste da vicino: il giornalista embedded
23 Maggio 2017
Le crisi viste da vicino: il giornalista embedded
Al Lingotto incontro con Marco Alpozzi, giovane fotoreporter torinese nel 2012 al seguito dei militari italiani in Afghanistan e oggi impegnato a documentare l’emergenza profughi
Silvia Bruno
Seguire le forze armate nelle zone di crisi, accompagnando i soldati sui mezzi blindati, durante la vita nelle basi e nel loro tempo libero. È il lavoro del giornalista o del fotografo embedded – cioè ufficialmente al seguito dei contingenti militari sul campo – ed è il mestiere scelto da Marco Alpozzi, fotoreporter torinese non ancora trentenne, ospite ieri allo stand del Ministero della Difesa al Salone del Libro per raccontare la propria esperienza. Con lui sul palco il Tenente Colonnello Mario Renna, ufficiale della Taurinense e già portavoce del contingente italiano in Afghanistan.
VIVERE CON I SOLDATI
Marco è giovane ma il suo curriculum è già ricchissimo perché dal 2009 ha documentato il terremoto dell’Aquila, il conflitto in Afghanistan, quello nel Donbass (Ucraina) e l’emergenza profughi nel Mediterraneo, di cui ha iniziato a occuparsi nel 2011 in Tunisia e a Lampedusa e che sta seguendo tuttora.
Probabilmente molte delle immagini che avete in mente quando si parla di questo tema sono sue. Perché il giornalismo embedded permette di arrivare dove diversamente non si potrebbe e talvolta è l’unico modo per raccontare quanto sta accadendo in uno scenario di crisi.
Certo non è un lavoro facile e comporta dei rischi, gli stessi dei soldati che si seguono ad esempio negli scenari di guerra, ma «la passione per quello che si fa permette di superare tutto – dice Marco – Paura? È normale averne, ti aiuta a essere vigile, ma più che paura in quei momenti si vive una situazione di generale tensione, in un clima che pian piano diventa la norma».
Si condivide tutto con i militari (posti sui lynch, brande, cibo) e si impara a conoscerli, nascono anche delle amicizie che continuano una volta tornati a casa, dopo un periodo sul campo che per i professionisti dell’informazione in genere non supera le due settimane. La presenza di giornalisti e fotografi che si alternano così spesso costituisce anche un elemento che spezza la routine dei soldati, oltre naturalmente a essere funzionale ai doveri di trasparenza nelle attività a cui è chiamata ogni missione militare all’estero.
FRA PRECARIATO E UMANITA’
Come molti lavori nel mondo della comunicazione il giornalista embedded è un mestiere precario, che non garantisce da solo la sopravvivenza: ecco perché Marco, freelance e collaboratore di un’agenzia stampa, si occupa anche di attualità italiana e di eventi sportivi. Ma quando una certa situazione si acutizza e la passione chiama, si parte, cercando di dare al proprio lavoro quell’unicità utile a vendere le fotografie, in un mondo sempre più affamato di immagini.
Dall’altro lato, bisogna cercare di non farsi coinvolgere troppo dalla realtà che si sta raccontando, pur mantenendo la necessaria umanità. Alla domanda su quali scatti e situazioni gli abbiano creato più commozione, Marco risponde senza esitare: «l’attuale emergenza profughi, costituita da migliaia di uomini, donne e bambini disposti a rischiare la morte piuttosto che restare nel loro paese natale». Una situazione che nonostante il lavoro del fotoreporter torinese e dei suoi colleghi – oltre 2.500 in tutte le aree di crisi del mondo – «ci sembra sempre lontana».