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21 Giugno 2017
Ne avete di finocchi in casa?
Al Lovers Film Festival un documentario sugli stereotipi con cui il cinema degli anni ’70 rappresentava i personaggi omosessuali
Aurora Bolandin
Ieri pomeriggio, spinti dalla curiosità, abbiamo assistito alla proiezione del documentario Ne avete di finocchi in casa?, presentato dal Collettivo GayStatale dell’Università di Milano, all’interno della programmazione del Lovers Film Festival di Torino.
Il documentario ci ha intrigato fin dal suo teaser su YouTube e ci siamo appassionati alla storia di questo collettivo, che attraverso il crowdfunding è riuscito a portare avanti un progetto ambizioso e originale. Arrivati in sala, siamo stati felici di poter ascoltare dal vivo le parole di Andrea Meroni, il giovanissimo regista che, tradendo forse un po’ di emozione, ha spiegato i motivi che hanno spinto il collettivo a realizzare il documentario e gli obiettivi che desideravano raggiungere.
LA TEMATICA
Ne avete di finocchi in casa? indaga con occhio irriverente i personaggi omosessuali presentati dal cinema popolare italiano negli anni 70, individuando cliché e stereotipi proposti a più riprese in pellicole ben conosciute dal grande pubblico.
Sullo schermo scorrono immagini de La Dolce Vita, Il vizietto, Dio li fa e poi li accoppia e altri capolavori di registi come Argento, Risi e i Vanzina; scene celebri ed esilaranti inframmezzate da interviste a chi quell’ambiente, spesso indelicato nei confronti delle persone gay, l’ha vissuto e può raccontarne i retroscena.
GLI OBIETTIVI
«Oggi un omosessuale può essere messo in scena in molti modi diversi, mentre il film racconta tempi in cui la rappresentazione era senza scampo» dice Meroni. Come dargli torto?
Che si trattasse di donnicciole frivole, preti ambigui o camerieri ammiccanti, il documentario dimostra che la figura dell’omosessuale veniva etichettata come personaggio di seconda fila, utile a dare colore e a strappare una risata allo spettatore. Cosa dire invece delle proposte televisive odierne? Meroni non ha dubbi: «Quello che vediamo oggi contribuisce a rinnovare lo stereotipo, ma crea anche un effetto di nostalgia verso i tempi in cui la rappresentazione poteva essere spensieratamente omofoba».
Inserendosi nel film come intervistatore e intrattenitore, il regista ha centrato il suo obiettivo, ovvero «mediare tra l’impegno sociale di attivista e le macchiette stereotipate, che rappresentano comunque una non trascurabile parte godibile e leggera del cinema italiano».
Il documentario è piacevole, sarcasticamente realista e invita tutti a riflettere sulla strada fatta e su quanto il sottostimato politically correct sia in realtà una conquista fondamentale.