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20 Novembre 2019

Inside the bodies, un progetto di medicina narrativa

Ricostruire l’esperienza della malattia e del proprio corpo attraverso il racconto: è l’obiettivo dei laboratori avviati da una giovane antropologa torinese

Francesca Vaglio Laurin

sfondo blu disegni verdi e rosa, Inside the bodies Laboratori di medicina narrativa

Con la medicina narrativa il paziente rielabora la propria storia

Isabel Farina – 29 anni, di professione antropologa medica – dopo la laurea magistrale si è avvicinata alla “medicina narrativa”, decidendo poi di avviare un percorso laboratoriale tutto suo sui temi della ginecologia e del corpo femminile. L’abbiamo intervistata per scoprire di più di questo approccio alla malattia e del progetto che ne è nato, dal titolo Inside the bodies.

Partiamo dall’inizio: di cosa si occupa la medicina narrativa?
«La medicina narrativa è più un approccio che una disciplina medica vera e propria. Si occupa di migliorare il rapporto medico-paziente attraverso la narrazione, concentrandosi non solo sulla malattia in senso clinico ma anche sull’esperienza delle persone. La scrittura è la tecnica principale ma si possono usare anche altri strumenti come la conversazione, oppure stimoli visivi e artistici. Può essere orientata verso i pazienti oppure verso i medici stessi».

Come sei arrivata a interessarti a questo ambito?
«Mi sono laureata con una tesi in antropologia medica e volevo provare a fare quello di mestiere. Dopo l’università ho iniziato a lavorare come antropologa all’interno di un’azienda che sviluppa servizi; io mi occupo di quelli in ambito sanitario e la maggior parte dei progetti su cui lavoro mira a comprendere l’esperienza di malattia dei pazienti attraverso la ricerca, da cui poi si cerca di sviluppare dei servizi per facilitare la vita delle persone. A un certo punto, per questioni di budget, mi è stato chiesto di trovare metodi di ricerca non sul campo, per cui non potevo andare a intervistare i pazienti ma dovevo inventarmi qualcosa da fare da remoto. Ho iniziato a chiedere alle persone che partecipavano alla ricerca di scrivere delle cose e di essere intervistate telefonicamente; poi informandomi ho scoperto la medicina narrativa e che in Italia esisteva un master dedicato a questo. Mi piaceva molto l’idea di usare questo approccio anche in altri contesti oltre quello in cui lavoravo, quindi mi sono iscritta. Era prevista una tesi di ricerca e ho deciso di dedicarla ai miei interessi in ambito sanitario, in particolare la ginecologia, su cui non avevo mai lavorato».

Da dove nasce il progetto Inside the bodies?
«È partito dal mio progetto di tesi del master, che è piaciuto tanto alle ragazze che hanno partecipato, quindi ho deciso di portarlo avanti ma in maniera totalmente autonoma e personale. Per lavoro non mi sono mai occupata di ginecologia e quasi mai di questioni di genere. A partire da esperienze personali e da una serie di racconti che mi arrivavano da amiche e conoscenti ho pensato che quella era una branca inesplorata e che volevo vedere come poteva collegarsi con la medicina narrativa».

Quali tecniche hai usato finora per il progetto?
«Ho pensato di partire dalla cosa più semplice, cioè esplorare il proprio corpo, per cui lo strumento del diario era molto utile. Poi dall’analisi dei diari che avevo ricevuto, circa una decina, sono emerse una serie di questioni, alcune più legate all’ambito clinico, altre meno. In ambito più clinico ho deciso di provare a ricostruire l’esperienza di malattia con lo strumento del racconto strutturato, perché a volte questa esperienza non è riordinata nella mente delle persone. Attraverso una traccia si può raccontarla cercando poi di dare un ordine cronologico e di senso a quello che sta succedendo. Altri strumenti possono essere le favole, oppure il collage per lavorare sul percepito corporeo. Un’altra tecnica, che però non viene dalla medicina narrativa, è la scrittura collettiva. Mi sono accorta che spesso nelle esperienze di malattia emerge un senso di solitudine, quindi fare esercizi di scrittura non individuali mi sembrava una tecnica molto bella per finire un laboratorio, perché permette sia di non sentirsi soli, sia di cercare di riprodurre il senso collettivo e sociale della malattia».

Quali saranno i prossimi passi di Inside the bodies?
«Al momento il progetto si conduce da remoto, ci sono delle consegne a cadenza mensile e le istruzioni per partecipare. Mi sono però accorta che c’è grande interesse ma poca partecipazione, quindi vorrei provare a costruire dei momenti in un luogo fisico, dei laboratori dove le persone si possano conoscere e scambiarsi le proprie narrazioni. Questo perché la medicina narrativa ha due effetti: innanzitutto far sentire meglio le persone, e in questo la scrittura funziona molto di più che altre tecniche. In secondo luogo serve a sentire la potenza di un racconto collettivo e a potersi scambiare le esperienze, e questo secondo me se fatto da remoto è un po’ debole, perché sono io che ricevo i documenti e li analizzo, ma le persone non leggono le narrazioni degli altri. Invece con degli incontri in uno spazio fisico io farei solo da mediatrice, la restituzione sarebbe immediata e fatta da persone che si vedono l’una con l’altra».

C’è qualcosa che vuoi dire a chi volesse sapere di più su questo progetto e su queste tecniche?
«Ho notato che spesso c’è un po’ di paura dello scrivere, si tende a pensare di non essere abbastanza bravi o capaci. Ma la medicina narrativa non è una disciplina che richiede doti da scrittori, basta un po’ di interesse perché si riveli uno strumento bello ed efficace. In medicina spesso ci si sente molto soli, confusi, in balia di quello che ti dicono gli altri, invece con questo approccio si capisce meglio quello che si sta vivendo e non è richiesta nessuna competenza particolare».

 

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