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2 Marzo 2020
Giovani italiani in Usa: un anno da au pair
Con l’esperienza di Simona a New York inauguriamo oggi una rubrica per raccontare cosa porti ragazze e ragazzi ad andare a vivere, più o meno a lungo, negli Stati Uniti
Giovanni B. Corvino
Secondo l’Associazione Nazionale Italiana Alla Pari, la quale ha l’obiettivo di aiutare i giovani che aspirano a diventare au pair e le famiglie che vogliono farsi ospitanti, ogni anno più di 1.000 ragazzi e ragazze lasciano il nostro Paese verso mete anche lontane, come l’Asia o l’Australia. Economicamente, ricevono un pocket money mensile che varia a seconda della destinazione, mediamente dai circa 300 euro per l’Europa ai circa 500 dollari per gli Usa, a cui vanno aggiunti il viaggio di andata e di ritorno e una camera singola presso l’abitazione della famiglia ospitante. Quest’ultima provvederà anche alle spese relative ai pasti.
Da un punto di vista prettamente economico, non sembra quindi una grande possibilità per un giovane che cerca lavoro. Cosa spinge, dunque, a partire verso un Paese straniero, anche a decine di ore di volo dalla propria famiglia? Inauguriamo oggi una rubrica per raccontare queste esperienze con Simona Tabotta, classe ’94, nata in provincia di Cuneo, che appena le si è prospettata l’opportunità non ci ha pensato due volte a partire per New York con una sola valigia.
Raccontaci un po’ di te e del tuo viaggio in America.
«Sono partita per stare via un anno con una sola valigia, portando con me il minimo indispensabile e qualche foto ricordo. Ho vissuto la mia adolescenza tra Cuneo e Torino e avevo 20 anni quando partii per fare l’au pair, la ragazza alla pari, presso una famiglia di Monroe, New York. Il compito dell’au pair è quello di prendersi cura dei bambini. Io ne avevo tre, due maschi e una femmina. Tutti i giorni dovevo occuparmi di portarli a scuola, a hockey, agli scout, a catechismo e infine a giocare. La giornata di un’au pair cambia anche a seconda delle stagioni. Lavoravo dal mattino alle 7 fino alle 9 di sera, escluso il weekend».
Perché hai deciso di partire per l’America e di non restare in Europa, ad esempio?
«Ho deciso di partire per due motivi: in Italia ormai è difficilissimo trovare lavoro e in più avevo voglia di esplorare, conoscere un mondo nuovo diverso dal nostro, come gli Usa, e viverlo a pieno».
Com’è stata la tua esperienza a New York?
«Grazie alla mia esperienza qui sono cresciuta molto come persona. Adesso so che posso affrontare da sola ogni difficoltà, che niente può fermarmi. Mi sono trovata in un Paese nuovo, lingue diverse, culture diverse e mi sono dovuta gestire tutto io. Patente, documenti per la banca, assicurazione sanitaria, ogni minima difficoltà che ho trovato dovevo risolverla da sola».
Cosa ti mancava di più dell’Italia?
«Dell’Italia mi mancava il mio cane. La famiglia la sentivo tutti i giorni e gli amici, quelli veri, sono rimasti. Poi ho fatto nuove amicizie e diciamo che adesso mi mancano molto di più gli amici americani».
Ci sono stati dei momenti in cui avresti voluto mollare tutto e tornare di corsa in Italia?
«Ci sono stati molti momenti in cui volevo tornare a casa. Sembra facile, ma gestire tre bambini non lo è affatto. E poi avevo la “mamma ospitante” che era abbastanza una “bossy” e mi faceva sentire completamente sbagliata».
Quali sono stati i momenti più belli di quest’esperienza che porterai per sempre con te?
«Per fortuna ho avuto anche tanti momenti belli. Sicuramente tra questi l’aver visitato luoghi diversi come Las Vegas, San Francisco, Boston, le Cascate del Niagara, il Grand Canyon, Los Angeles e Philadelphia. Ho anche conosciuto tante persone che sono diventate importanti per me, con le quali ho passato dei bellissimi momenti e che sento tutt’oggi».
Com’è cambiata la tua vita dopo questa esperienza?
«Tornata a casa mi sono accorta di essere diversa da come ero partita. Caratterialmente sono maturata molto, al punto che so affrontare meglio le difficoltà che si possono presentare nel quotidiano. Grazie a questa esperienza ho trovato subito impiego come segretaria in una ditta metalmeccanica, per la quale lavoro ancora oggi. Ora sono diventata responsabile dell’ufficio acquisti, grazie anche al mio inglese fluente. Non è però tutto oro quello che luccica: ho passato quasi un anno con la depressione da ritorno. Mi sentivo soffocare in Italia, ad esempio non ero più abituata allo sguardo delle persone. In America nessuno ti fissa. Ancora oggi sogno di ripartire, ma è quasi impossibile per il costo del viaggio. Tuttora, però, sento New York come una seconda casa».