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15 Maggio 2020

Storie dalla quarantena nei collegi universitari torinesi

Cosa ha voluto dire passare quasi 60 giorni chiusi in una residenza? Ne abbiamo parlato con due studenti, ecco cosa ci hanno raccontato

Aurora Saldi

Stanza con divani rossi e nastro divieto accesso

Spazi comuni chiusi nelle residenze universitarie in quarantena

La quotidianità di chi vive in un collegio universitario è già particolare: si convive con tanta gente ma non si condivide la stanza con nessuno (o al massimo con una persona), ci sono regole da rispettare, in qualche modo sembra che non si esca mai dalla dimensione studentesca. Poi c’è la questione dell’abitare lontano da casa, dalla propria famiglia: una condizione non facile, soprattutto quando ci si trova dall’altra parte della penisola durante una pandemia.
Marta (matricola di Medicina) e Marco (al primo anno della magistrale di Filosofia) abitano rispettivamente al Collegio Einaudi, sezione Valentino e nella residenza Olimpia. Ci hanno raccontato cos’ha voluto dire passare la quarantena in una struttura universitaria.

Iniziamo da febbraio, quando molte persone hanno sottovalutato l’emergenza sanitaria. Come avete vissuto quei momenti?
Marta: «Quando questa situazione è esplosa, la risposta è stata disomogenea: qualcuno è tornato a casa propria mentre altri come me hanno preferito, anche se sono di Torino, rimanere in residenza. Sul mio piano siamo rimasti quasi tutti».
Marco: «All’inizio, come molti, non avevo preso sul serio questa situazione. Nonostante in quel momento avessi finito gli esami e avessi un po’ di tempo a disposizione, non ho pensato di scendere a casa mia, a Frosinone, perché pensavo sarebbe durata poco. Quindi sono rimasto bloccato qui a Torino».

Poi, come sappiamo, la situazione è precipitata: che clima si è creato nelle vostre residenze?
Marta: «Abbiamo cercato di creare dei momenti collettivi per vivere meglio la situazione: ad esempio alle 18 ci trovavamo tutti insieme per guardare la conferenza stampa, abbiamo cucinato insieme e organizzato dei cineforum. Abbiamo insomma guardato al virus anche in modo un po’ fatalista: se per caso fosse entrato in residenza, ce lo saremmo preso tutti in ogni caso, perché viviamo nello stesso posto».
Marco: «Siamo rimasti in 150 circa. Il clima non è stato dei migliori: c’era molto sospetto reciproco, molte persone si sono anche fatte prendere dal panico. Alcuni di noi, un po’ più “comunitari”, hanno cercato di aiutarsi a vicenda: anche solo passando del tempo insieme in giardino, facendo attività che implicassero il distanziamento sociale. La situazione è precipitata quando, a fine marzo, sono stati trovati ufficialmente due casi positivi. La risposta è stata molto severa: non potevamo uscire, ci portavano i pasti in camera. Non ci hanno detto i nomi di queste persone ovviamente, ma sappiamo che li hanno allontanati per evitare contagi. Questa situazione è durata per 14 giorni, il tempo di incubazione. Fino al 20 aprile, data dopo la quale siamo stati un po’ più liberi. Però quei giorni sono stati alienanti, mi sembrava di vivere in un mondo post-apocalittico».

In questo periodo abbiamo capito che dobbiamo essere i primi a esercitare il controllo su come ci relazioniamo con gli altri, anche rispetto alle nuove leggi e norme sociali. Come si è riverberato questo clima sulla regolamentazione interna delle residenze?
Marta: «Anche in Collegio a un certo punto sono comparse norme nuove, ad esempio sul distanziamento. Ci hanno chiesto di stare a un metro di distanza gli uni dagli altri: l’abbiamo trovato un po’ paradossale, in un contesto in cui comunque usiamo tutti le stesse stoviglie nella cucina comune. Siamo usciti in ogni caso il meno possibile e ci siamo organizzati con i turni: sia per fare la spesa, sia in modo tale da riuscire a mangiare scaglionati in cucina. Abbiamo un po’ patito un clima da “Grande Fratello”: la situazione che stiamo vivendo impone già molto controllo sulle nostre vite, ci siamo sentiti controllati anche dal Collegio. Ad esempio, se per una notte non fossimo tornati in residenza ci avrebbero disattivato i badge. Abbiamo anche avuto qualche problema con il vicinato: alcune persone delle case intorno ci hanno fotografato mentre eravamo in terrazza o in cucina, denunciandoci ai giornali perché stavamo creando assembramenti. In realtà quello è il posto in cui abitiamo e non è sempre possibile mantenere il distanziamento sociale».
Marco: «Anche da noi le norme sono state molto severe e sono comparse alcune sanzioni. Dal 24 febbraio poi, quindi quasi subito, tutti gli spazi comuni sono stati chiusi. Con la connessione pessima e le aule studio e i salottini inaccessibili, studiare è diventato complicato. Stai chiuso nella tua stanza tutto il tempo, dopo un po’ è difficile mantenere la concentrazione».

Come sono cambiate le vostre relazioni? Come state vivendo la distanza con le famiglie?
Marta: «A livello umano, dentro la residenza, all’improvviso ci siamo trovati a stare insieme molto più del solito. Rispetto a chi ha vissuto la quarantena con i genitori, ci siamo sicuramente abituati prima a pensare ai rapporti umani in queste nuove modalità, su scala un po’ più ampia. Abbiamo però avuto tutti un po’ paura all’idea di tornare dalle nostre famiglie: forse abbiamo preso il virus in modo asintomatico, ma in realtà siamo contagiosi e non lo sappiamo. Questo stato di dubbio sicuramente è stressante».
Marco: «Per quanto riguarda la mia vita sociale, mi sono reso conto che, dopo quattro anni di vita da fuori sede, ho cominciato a usare le videochiamate! Sembra assurdo ma prima di questa situazione non ci avevo mai pensato. Ora il problema è il ritorno a casa: formalmente potrei farlo, ma in pratica non si trovano treni o voli. Per il momento resto bloccato a Torino».

 

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