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19 Maggio 2020

Fare il volontario soccorritore durante l’emergenza sanitaria

Abbiamo incontrato un giovane della Croce Verde Torino per sapere com’è stato prestare servizio in questi mesi

Aurora Saldi

Persona con tuta protettiva, mascherina e guanti affacciata a finestrino ambulanza Croce Verde Torino

Un volontario soccorritore della Croce Verde Torino

Da due anni Tommaso fa il volontario soccorritore presso la Croce Verde Torino; è salito sulle ambulanze anche nell’ultimo periodo, nel pieno della crisi da Covid-19. Abbiamo fatto una chiacchierata con lui per farci raccontare cos’è cambiato nel modo in cui si lavora con i pazienti.

Per iniziare ci vuoi descrivere in cosa consistono di solito le vostre mansioni?
«Se di giorno a prestare soccorso è il personale dipendente, di notte e il sabato subentriamo noi volontari. Siamo divisi in nove squadre e ci occupiamo dei soccorsi d’emergenza. I servizi sono sempre molto vari: c’è la persona che ha sintomi fisici leggeri e chiama perché più che altro ha bisogno di passare un po’ di tempo in compagnia e ci sono soccorsi più specifici, per cui veniamo formati tramite appositi corsi».

Come avete percepito voi volontari l’inizio dell’emergenza? Avevate coscienza di quanto la situazione si sarebbe poi aggravata?
«Da subito abbiamo avuto coscienza di trovarci davanti a una situazione straordinaria. All’inizio comunque i procedimenti erano molto meno rigidi e precisi. Usavamo i protocolli che eravamo abituati a seguire per i pazienti affetti da qualsiasi tipo di malattia infettiva: casi che capitavano, al massimo, una volta al mese. Essendo un virus del tutto nuovo, abbiamo dovuto capire come gestirlo al meglio. Sicuramente c’era l’obbligo di fare alcune domande specifiche: siete stati di recente in contatto con persone provenienti dalla zona di Milano? Avete la febbre alta? Poi, con il tempo, abbiamo sistematizzato una serie di pratiche di sicurezza. Grazie al protocollo molto rigido che abbiamo cominciato a seguire siamo riusciti a contenere a singoli casi il contagio».

Cos’è cambiato nel vostro servizio?
«Sicuramente da quando l’emergenza è esplosa abbiamo osservato una drastica diminuzione del numero di servizi. Le persone hanno quasi subito preso coscienza che la situazione era estremamente delicata e difficile e sono sparite le chiamate per motivi un po’ meno gravi. Dalla varietà di situazioni di cui parlavo prima, quindi, tendenzialmente i casi si sono ridotti alle persone positive al tampone: il nostro compito è trasportarle in ospedale. Un’altra mansione nuova per noi è il trasporto presso le Rsa dei pazienti che, ormai stabili, vengono dimessi dall’ospedale. Poi, è chiaro, la persona che si rompe una gamba continua a esserci anche in questo periodo. Però sì, direi che la maggior parte dei servizi ora sono per persone con difficoltà respiratorie».

Inoltre è cambiato il modo in cui vi preparate per operare.
«Sì, è davvero molto cambiato l’aspetto relativo a come ci attrezziamo per affrontare un servizio: dobbiamo indossare una mascherina non chirurgica, i calzari, l’abito di protezione e i doppi guanti. Non nascondo che lavorare in queste condizioni complica molti aspetti: in primis quello della comunicazione con i pazienti. I rapporti umani non sono compromessi ma ostacolati, questo sì. Per noi adesso è necessario essere preparati mentalmente anche a questo: a volte solo con un sorriso riuscivi a tranquillizzare un paziente, adesso con la mascherina non è più possibile. Sicuramente la vestizione lunga e attenta ha portato a un allungamento delle tempistiche, anche perché a fine servizio devi svestirti, un’operazione che prende il suo tempo: bisogna sterilizzare tutto minimizzando il più possibile i rischi e disinfettare il mezzo. È stancante ma anche temprante».

Che emozioni ricorderai di questi mesi?
«Da un lato questo periodo è stato estremamente faticoso: lavorare con i dpi (dispositivi di protezione individuale, ndr) non è facile anche a livello fisico, soprattutto adesso che fa più caldo. Dall’altra parte non è da sottovalutare l’opportunità di uscire di casa e di prestare un servizio che noi abbiamo piacere di fare. Mi rimarrà sicuramente impresso il fatto che in tante famiglie ho visto persone prendersi carico dei parenti malati: è un bell’esempio di solidarietà».

Come immagini il vostro servizio dopo la pandemia?
«Sarebbe una bugia dire che lo immagino più tranquillo: nonostante la turnazione sia gestita bene, è impegnativo. Mi aspetto che ritorneranno certi tipi di servizi. Non immaginiamo un orizzonte di tempo in cui potremo smettere di usare i dpi, ma c’è tanta voglia di tornare a quel contatto umano. Penso che in questi mesi anche all’interno delle squadre ci sia stato un approccio meno razionale e più compatto: spero che questo elemento resti. In generale, abbiamo dimostrato di saper tenere duro anche durante questo periodo difficile. Del resto, se c’è una parola attorno a cui ruota tutto il nostro lavoro, è proprio solidarietà».

 

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