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28 Maggio 2020

“Pronta a ripartire”: storia di un’infermiera guarita dal Covid-19

La testimonianza di Antonella, che lavorando si è ammalata di Coronavirus ma presto tornerà nel suo reparto in ospedale

Vincenza Di Lecce

Infermiera con mascherina, camice e guanti

Molti medici e infermieri si sono ammalati di Covid-19

La Fase 2 ci ha tolto dai balconi e ci ha riportato fra i tavolini distanziati dei bar, al parco, alle cene con gli amici. Una pseudo-normalità che ancora ci fa riflettere su quanto appena vissuto, che un po’ ci intontisce, come quando ci si sveglia da un sogno e ci si chiede cosa, di quel sogno, saremo in grado di ricordare.
C’è qualcuno però che i ricordi invece li ha ancora nitidi, vivi nella propria testa e nel proprio cuore. Antonella è una giovane infermiera di 24 anni, lavora a Milano e si è ammalata di Covid a fine marzo: lei è una di quelle persone che questo brutto sogno lo porterà dentro ancora per molto.

In quale reparto lavori e com’è cambiato il tuo lavoro con l’arrivo del Covid?
«Lavoro in cardiologia, un reparto specialistico che non avremmo mai immaginato potesse chiudere per l’emergenza Covid. A fine febbraio abbiamo iniziato ad avere i primi casi sospetti, trattati con le dovute precauzioni. In quelle stanze si entrava solo per la somministrazione della terapia e quando era il paziente a chiedere assistenza, paradossale per noi che siamo abituati a constatare come sta la persona con una certa frequenza. La situazione è cambiata in modo repentino dalle prime settimane di marzo, quando da un giorno all’altro siamo stati inondati dalle telefonate degli ospedali più affollati di Bergamo e Brescia. Siamo stati costretti a chiudere la cardiologia e aprire il reparto Covid».

Come hai vissuto l’inizio dell’emergenza? Eravate preparati?
«Assolutamente no. La cosa drammatica è stata dimettere in maniera repentina i nostri pazienti, mandandoli a casa oppure trasferendoli in altre strutture. Ci siamo trovati subito a dover imparare come gestire l’isolamento non essendo, il nostro, un reparto di malattie infettive. L’inizio è stato tremendo perché i pazienti arrivavano uno dopo l’altro e venivano sistemati nelle stanze: noi non sapevamo i lori nomi, né la loro età. Sapevamo semplicemente che provenivano in gran parte da Bergamo e da Brescia e che erano stati ricoverati per Covid. Alcuni in attesa di tampone, altri già con difficoltà respiratorie. Non conoscevamo niente di loro, sembrava non avessero un’identità».

Com’era lavorare in quelle condizioni? Ti sentivi in pericolo?
«Il 19 marzo è un giorno che ricordo bene perché ho vissuto il momento più brutto, realizzando quanto fosse dura. Ho pensato che non avrei potuto reggere quelle emozioni, la paura che si percepiva negli occhi dei pazienti. Mi sentivo in pericolo, per me stessa, per la mia famiglia e per mia sorella e il mio amico che vivono con me. Ho iniziato a dormire sul divano, mi sono messa in autoisolamento perché la paura era tanta. Trovavo il coraggio di affrontare la giornata nei colleghi: avevo la sensazione di non farcela fino a quando non arrivavo in reparto. Incrociare il loro sguardo mi dava la forza, perché non potevamo tirarci indietro».

Sei poi risultata positiva. Come hai preso questa notizia?
«Avevo i primi sintomi, febbricola e tosse. Un giorno avrei dovuto fare il turno di notte, ho chiamato il mio coordinatore mettendolo al corrente della questione. È subito partito il protocollo aziendale: ho fatto il tampone il 26 marzo e dopo tre giorni, di domenica, mi hanno chiamato per comunicarmi il risultato. Sapevo che c’era un’alta probabilità che avessi contratto il virus, ma ricevere la telefonata e leggere il referto mi ha comunque molto turbato. Ero spaventata perché vedevo gli effetti della malattia sui pazienti, il loro sguardo perso, la paura di non farcela, la solitudine. Temevo di vivere la loro stessa condizione e avevo il terrore di aver contagiato qualcuno, i miei colleghi e la mia famiglia».

Come hai vissuto la quarantena?
«Anche i miei due coinquilini hanno dovuto farla. Io mi sono isolata in una stanza, ero sola fisicamente ma col cuore avevo con me tanta gente. Dal pranzo in camera ai bigliettini lasciati perché io li leggessi, le persone che avevo intorno mi tiravano su il morale. Erano giorni di festa e l’isolamento è pesato il doppio. Mia madre mi tempestava di chiamate per accertarsi che stessi bene, non come i pazienti di cui si parlava in tv. Ho poi sempre avuto accanto i miei colleghi, che mi hanno tranquillizzato e incoraggiato a distanza. Il supporto psicologico delle persone a me care, anche di notte, quando avvertivo stati di ansia e paura, è stato determinante».

Pensi che questa esperienza ti abbia cambiato, sia a livello professionale che umano? Cosa porterai per sempre con te?
«Credo che questa esperienza abbia cambiato un po’ tutti. A livello professionale ho dovuto imparare velocemente tutto quello che c’era da sapere, senza un affiancamento che potesse fornirmi le conoscenze necessarie, dall’uso del respiratore alla gestione dell’ossigeno. Una situazione che pensi di vedere solo nei film. Ma porterò per sempre con me le storie dei pazienti. I loro occhi che trasmettevano la paura di non rivedere i familiari, di non essere capiti per via del casco che aiuta a respirare. Una storia che non mi lascerà mai è quella di un anziano, sposato da 50 anni, con la moglie anche malata ma ricoverata in un altro ospedale. Aveva il terrore di non rivederla, passava il tempo chiedendo al medico notizie di lei, si faceva forza solo così».

Tutto sembra stia tornando, seppur molto lentamente, alla normalità. Ti senti pronta a ripartire?
«Sono pronta a ripartire nel mio reparto, che non ha più pazienti Covid. Ma resta sempre la paura che il paziente cardiologico possa essere infetto e quindi che si possa ricadere nell’incubo. Ripartire, ma con la giusta cautela e con le dovute precauzioni. Detto questo, sì, il nostro reparto ha per ora chiuso questo capitolo ed è pronto ad aprirne un altro».

 

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