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10 Giugno 2020

Orti Generali: l’autoproduzione agricola in periferia

Nel parco fluviale del Sangone, a Mirafiori Sud, da anni esiste un progetto per gestire pezzi di terra coltivati da cittadini e associazioni

Aurora Saldi

Terreni agricoli recintati con sfondo di città - Orti Generali

Il progetto Orti Generali ha sede nel parco del Sangone (ph. U. Costamagna)

Partire dall’agricoltura urbana per parlare di riqualificazione del territorio. È l’idea da cui nasce Orti Generali, che supporta privati e organizzazioni nella coltivazione di appezzamenti di terreno nel parco fluviale del Sangone, nel cuore di Mirafiori Sud, quartiere operaio della periferia torinese.
Per saperne di più abbiamo incontrato Matteo Baldo dell’associazione Coefficiente Clorofilla, che coordina il progetto.

Come e perché nasce Orti Generali?
«Orti Generali nasce dieci anni fa, allora si chiamava Miraorti. Il contesto in cui ha preso avvio è il progetto cittadino di riqualificazione delle sponde del Sangone. Attraverso quell’esperienza la nostra équipe ha ragionato su scenari possibili di riconversione della zona che coinvolgessero il territorio, tenendo conto anche di chi aveva su quel terreno già degli orti spontanei. Quei cittadini e i loro appezzamenti, abusivi e non regolamentati, erano sulle sponde del torrente già dagli anni Sessanta: dovevamo coinvolgerli nel processo. Proprio perché l’elemento comune a tutte le realtà umane presenti lungo il Sangone era l’attività agricola, abbiamo fondato il nostro modello di riqualificazione su questo, oltre che sulla sostenibilità economica sul lungo periodo».

Cosa è successo dopo?
«Ci siamo trovati di fronte una zona divisa sostanzialmente in due. La parte “superiore” era costituita dall’ex territorio della Cascina Cassotti Balbo, un terreno molto curato ed erboso dal momento che veniva principalmente utilizzato come pascolo per il bestiame. Lì abbiamo deciso di sistemare gli orti da assegnare. La parte “inferiore”, direttamente affacciata sulla riva del torrente, era invece occupata da una vecchia cava di sabbia risalente agli anni Sessanta. È stata la zona più difficile da bonificare: abbiamo portato via sei o sette cassoni pieni di rifiuti di varia natura. Lì abbiamo invece posizionato la fattoria con gli animali, dove spesso si tengono i laboratori con i bambini e le attività con la cittadinanza, ad esempio per la produzione di alimenti per il quartiere».

Oltre alla vostra associazione, chi lavora al progetto?
«Quando abbiamo pensato a chi potesse accedere all’affitto dei terreni coltivabili ci siamo innanzitutto immaginati una categoria che definirei come quella degli “ortolani solidali”, in situazione di svantaggio e difficoltà socio-economiche. Volevamo che queste persone fossero agevolate, perciò il contributo economico che versano è molto inferiore a quello degli altri ortolani. In compenso, ci danno una mano concreta nel progetto, ad esempio occupandosi del taglio dell’erba e della manutenzione della recinzione. Poi ci sono i volontari: anche se il turn over è molto rapido, prevalentemente provengono dal quartiere».

Siete riusciti a coinvolgere anche i giovani?
«Sì! Ci aspettavamo una partecipazione per lo più da parte delle fasce più anziane della popolazione come i pensionati, pensando che la pratica agricola fosse legata alle vecchie generazioni e che comunque un orto richiede molto tempo. Invece ci siamo sbagliati, perché sono arrivati tantissimi giovani e studenti. Per incentivare la loro partecipazione abbiamo poi creato un’agevolazione under 35: come si può vedere nella sezione del nostro sito “Scegli il tuo orto”, è soprattutto di tipo economico. L’idea ha funzionato benissimo: i 25 orti che avevamo previsto di assegnare con questa modalità sono stati subito affittati».

A livello etico, come vi siete posti sul territorio?
«Ci interessava dare da subito un segnale importante di novità rispetto agli orti spontanei già presenti nella zona e quelli regolamentati dal nostro progetto. Per questo abbiamo ragionato sulle modalità con cui accompagnare le persone in modo creativo nell’autocostruzione di materiali, in modo da evitare che ne usassero di non compatibili con il “sistema parco”. Per noi è stato importante fin da subito portare l’impatto sul territorio a zero. Un discorso valido anche dal punto di vista estetico, perché abbiamo immaginato un territorio che valorizzasse le risorse naturali e si presentasse come il più accogliente possibile: tutte le barriere presenti qui, come recinzioni e steccati, sono simboliche e veicolano un concetto di trasparenza, per cui posso osservare e confrontarmi con il mio vicino di orto. L’altro grande concetto di fondo è quello per cui tutto deve essere lasciato come è stato trovato: le pratiche di autogestione devono mirare a questa idea. Abbiamo lavorato in modo tale che, se domani dovessimo andarcene, non lasceremmo la minima traccia: non abbiamo costruito niente di irreversibile».

 

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Categorie: Ambiente

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