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15 Gennaio 2021

Ala kachuu, le spose forzate del Kirghizistan

Quando una tradizione culturale diventa un crimine penale con migliaia di ragazze, anche giovanissime, vittime ogni anno

Giovanni B. Corvino

Foto bianco e nero donna con cappuccio in testa e mani giunte - ala kachuu spose forzate Kirghizistan

In Kirghizistan molte donne sono rapite dal loro futuro marito

Rapire una donna per – letteralmente – prenderla in moglie. È una pratica purtroppo molto frequente in Kirghizistan, dove prende il nome di ala kachuu (“prendi e fuggi”): un giovane, spesso con l’aiuto di familiari o amici, sequestra una ragazza e la tiene imprigionata in casa fin quando lei accetterà sotto costrizione di sposarlo.
È stato stimato che nel paese asiatico 32 donne al giorno – e quindi oltre 11.000 ogni anno – siano costrette a matrimoni forzati all’età di neanche vent’anni.

LE VOCI DELLE VITTIME
Il film After the Rain raccoglie molte di queste storie: «Non sapevo niente della vita coniugale – dice una delle vittime – ed è stato molto difficile perché non lo amavo, ma non avevo altra scelta che arrendermi. Però, non gli ho mai dato il mio cuore». Un’altra ragazza è stata obbligata a sposarsi a soli 16 anni: «Mia madre è stata rapita per diventare una sposa. E così mia sorella. Quasi tutte le mie parenti hanno subito un matrimonio forzato».
Inizialmente il fenomeno avveniva nelle aree rurali, ma oggi sembra interessare molto anche le zone urbane, come testimonia il caso di Arabella. Mentre è all’università, viene trascinata con la violenza nella casa del suo futuro marito, il quale, dopo neanche due settimane dal matrimonio, inizia a picchiarla selvaggiamente, trattandola anche come una schiava per ben tre anni. Fortunatamente, dopo l’ennesimo pestaggio, la ragazza trova la forza di andare all’ospedale e denunciare quanto subito.

IL DIBATTITO INTERNAZIONALE
È solo a partire dagli anni ’50 che l’ala kachuu si trasforma in quello che è oggi. In precedenza, nelle tribù nomadi ci si riferiva con tale espressione a una fuga consensuale ma, per ragioni ancora oggetto di studio, oggi non è più così. Come dichiarato da Gazbubu Babayarova, fondatrice del Kyz Korgon Institute, l’organizzazione maggiormente coinvolta nel contrasto del fenomeno: «A volte gli uomini hanno paura a chiedere la mano delle ragazze e pensano che sia più facile rapirle, perché temono il loro rifiuto».
Forme simili di “prendi e fuggi” avvengono anche in Sud Africa, Armenia, Kazakistan, Etiopia, Cina e Ruanda, tanto che secondo una ricerca condotta da Lin Zhao della Duke University (Usa), le motivazioni economiche sono alla base degli avvenimenti. Per abbattere i costi del matrimonio legati alla sfarzosità della cerimonia, una donna verrebbe quindi rapita con il consenso dei genitori del carnefice.
Inoltre, ci si aspetta che la vittima diventi obbediente, accettando così il suo ruolo sottomesso all’interno della nuova famiglia e quindi aiutando la suocera a sbrigare le faccende legate all’economia domestica. Quanto si verifica ha sollevato un’accesa discussione tra gli attivisti per i diritti umani, tanto che la l’opinione pubblica kirghisa ha iniziato a condannare il fenomeno.

IL CONTRASTO ALL’ALA KACHUU
Il governo del Kirghizistan sta adottando misure per fermare quello che oggi è considerato un vero e proprio sequestro di persona, che purtroppo trova ancora sostegno nel retaggio culturale. Nel 2012 il parlamento ha approvato una legge contro questa pratica e l’approvazione dell’emendamento nel 2013 ha determinato le prime sanzioni penali, tanto che si può essere condannati fino a dieci anni di reclusione.
La parlamentare e giornalista kirghisa Aida Kasymalieva si è però espressa duramente contro l’inefficacia delle decisioni prese: «Anche se la ragazza scappa la notte del rapimento, alla stazione di polizia le potrebbero dire che è colpa sua. Le famiglie si accordano per sposare le loro figlie quando hanno 14 o 15 anni – continua – poi vanno da un imam, registrano il matrimonio ed è fatta. Se le donne divorziano o qualcosa va storto, vengono abbandonate senza nulla».
Questo si verifica perché lo stigma sociale legato al non essere capaci di mantenere salda l’unione, seppur imposta contro la propria volontà, è così forte da determinare una segregazione delle giovani donne lontane da servizi e prive di una fonte di reddito. Spesso neanche le loro famiglie di origine le riaccolgono in casa. Inoltre, come avvenuto con Arabella, il Paese così perde potenziali future architette, avvocatesse, maestre, giornaliste ecc., in quanto i danni psicologi di quanto vissuto impatteranno sulle vittime per tutta la vita.
Nuove azioni legislative sono dunque necessarie, ma soprattutto servono interventi educativi mirati al contrasto della violazione intenzionale e premeditata dei diritti umani.

 

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Categorie: Intercultura

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