Home » Lavoro » Il lavoro delle Usca: curare il Covid a domicilio

25 Marzo 2021

Il lavoro delle Usca: curare il Covid a domicilio

Dal racconto di un medico neolaureato scopriamo di cosa si occupano i team di operatori sanitari impegnati nella lotta al virus sul territorio

Adele Geja

Medici con tuta di protezione

Le Usca curano il Covid a domicilio

Uno dei problemi più gravi causati dalla pandemia è il sovraccarico di lavoro degli ospedali. Le Usca (acronimo per Unità Speciali di Continuità Assistenziale) cercano di ridurre questa criticità. Si tratta di squadre di medici assunti dalle Asl con speciali “contratti Covid”, che si occupano di gestire il più possibile il paziente a domicilio, evitando ricoveri non necessari e riducendo così la pressione sul sistema sanitario.
Per capire meglio come lavorano questi medici – di cui si parla poco a differenza dei colleghi impegnati in corsia – abbiamo intervistato Adriano, uno dei tanti giovani passati rapidamente dalla laurea discussa online all’impegno sul campo contro il Covid, che da ottobre lavora per un’Usca dell’Asl di Torino.

Come sei arrivato a lavorare in un’Usca?
«Ne ho sentito parlare per la prima volta un anno fa, durante la prima ondata, perché conoscevo dei medici che ci lavoravano. Dopo la laurea a luglio ho deciso di candidarmi al bando dell’Asl, dato che non avevo ancora intenzione di studiare per il test della specialistica e volevo approfittare di questa situazione per fare esperienza sul territorio, in una mansione diversa da quella che svolgerò poi in ospedale da specializzando».

In cosa consiste il tuo lavoro?
«Durante il primo mese appartenevo a Covid Scuola, sezione del Dirmei (il Dipartimento interaziendale Malattie ed Emergenze Infettive dell’Asl, ndr) che si occupava di valutare se dovessero essere messe in quarantena scuole e singole classi. Da novembre invece lavoro sul territorio e mi occupo principalmente di visitare a domicilio pazienti positivi o sospetti positivi con sintomi, segnalati dal medico di base o dalla guardia medica. Dopo la visita impostiamo una terapia, oppure stabiliamo se il paziente debba ricevere ossigeno o essere mandato in pronto soccorso. Ultimamente l’Usca si occupa anche di gestire i pazienti di alcune Rsa e collabora alle campagne vaccinali, che in realtà ci hanno tolto tante energie. I vaccini hanno una grande influenza mediatica, ma il lavoro di cura sul territorio in questo modo è peggiorato, dato che siamo impegnati per giorni interi a vaccinare».

Quante ore lavori alla settimana?
«Abbiamo un contratto da liberi professionisti in cui ci è richiesta una disponibilità minima di 24 ore settimanali, che possiamo gestire come preferiamo. In media lavoro 36 ore, in turni da 6 o da 12 ore giornaliere. La flessibilità degli orari permette di gestire in contemporanea più attività. Ad esempio, io preferisco concentrare i turni in pochi giorni da 12 ore, per dedicare il resto della settimana allo studio per il test di specializzazione previsto per quest’estate».

Hai avuto timori per questo lavoro?
«Sì, nonostante io abbia scelto di lavorare per un “contratto Covid”, inizialmente avevo un po’ di paure. In primo luogo temevo di potermi infettare e trasmettere il virus a parenti e amici. Mi spaventavano anche le responsabilità individuali che avrei dovuto assumermi nei confronti del paziente, maggiori rispetto a quelle che avrei affrontato se avessi iniziato subito la specializzazione. Gli specializzandi infatti iniziano a lavorare in un reparto ospedaliero come medici in formazione e sono sempre un po’ “protetti” dai medici strutturati e dal primario. Nell’Usca invece, nonostante potessi contare sulla mia formazione universitaria e sulle linee guida anti-Covid, dover prendere in autonomia decisioni importanti con poca esperienza alle spalle all’inizio mi faceva paura. Progressivamente ho acquisito maggiore sicurezza, anche grazie ai colleghi più grandi che mi hanno aiutato molto, ad esempio visitando insieme a me i primi pazienti».

Qual è la mansione più difficile?
«Dal punto di vista tecnico, i pazienti ospiti delle Rsa, anziani e con molte patologie, sono più complessi da affrontare per un neolaureato, rispetto ai pazienti Covid per i quali seguiamo linee guida standardizzate. A livello emotivo invece, è doloroso fare i conti con le paure e le ansie, talvolta irrazionali, del paziente e della famiglia. È infatti ancora molto diffusa l’idea che il Covid sia una malattia per cui se si va in ospedale si muore sicuramente: alcuni pazienti anche molto giovani sono talmente spaventati da non rendersi conto della gravità della propria situazione e rifiutare il ricovero, anche se le loro condizioni cliniche lo richiederebbero. Per me la parte più difficile è cercare di convincerli che l’ospedalizzazione in alcuni casi è essenziale, tentando di confortarli e rassicurarli».

C’è invece un aspetto che ti gratifica?
«L’aspetto più soddisfacente è proprio riuscire a convincere i pazienti più titubanti della fondatezza delle nostre scelte terapeutiche. È sempre gratificante aiutare qualcuno che sta male, ma è ancora più bello quando si affidano a te persone in precedenza dubbiose».

 

Tag: , , , ,

Categorie: Lavoro

Commenti (1)

  1. Nonna clara ha detto:

    Molto brava come al solito. Intetessante. Un argomento che non conoscevo. Un merito in più ai medici

Lascia un commento