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30 Giugno 2021
Anglicismi quanto basta: l’uso delle parole inglesi in italiano
Draghi dice la sua, la Crusca risponde: da smart working a fake news, non tutti i termini della lingua di Shakespeare sono indispensabili
Vincenza Di Lecce
Uso o abuso dei termini stranieri (specie se inglesi), questo è il dilemma.
Un quesito che accende gli animi di linguisti e non ormai da anni e che ha lasciato perplesso anche il premier Mario Draghi: «Chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi», si era infatti chiesto il Presidente del Consiglio durante un discorso al centro vaccinazione a Fiumicino lo scorso 11 marzo, dopo aver citato lo smart working e il contributo baby sitting.
NON TUTTE LE ADOZIONI VENGONO PER NUOCERE
L’utilizzo di parole straniere non è considerato di per sé un male. È anzi una linfa che rende una lingua viva. Quando l’adozione funziona bene succede infatti che termini di altri idiomi diventino parte integrante della lingua che le ospita: chi riconoscerebbe dietro ciclismo il francese cyclisme da cui deriva? O dietro pressurizzare l’inglese pressurize? Oppure, ancora, dietro zucchero l’arabo sukkar?
Ciò che turba oggi molti italiani potrebbe definirsi più un problema di cultura che di lingua. E proprio perché si tratta di una questione culturale, le posizioni all’interno del dibattito sono diverse.
Da una parte c’è chi ricorda senza nostalgia l’autarchia linguistica del fascismo ed è propenso a ricevere i prestiti integrali senza imbarazzo, percependoli come un felice segno di internazionalismo culturale. Dall’altra c’è invece chi sostiene che oggi gli anglicismi integrali, oltre a essere troppo numerosi, occupano gli ambiti più prestigiosi della comunicazione (scienza, politica, economia, medicina, pubblicità): il loro abuso può dunque essere sintomo di una scarsa attività della propria cultura.
LA CRUSCA RINGRAZIA
La riflessione di Draghi era stata particolarmente apprezzata dall’Accademia della Crusca, l’istituzione di riferimento per la lingua italiana fondata a Firenze nel 1583. “Che bello, grazie presidente! – aveva commentato all’agenzia Adnkronos il professor Claudio Marazzini, numero uno dell’Accademia – Un invito sereno a scegliere le parole italiane e a fare a meno di inutili anglicismi che arriva da un uomo di provata esperienza internazionale che per anni ha fatto giustamente discorsi in lingua inglese”. Una persona che, di certo, proprio non può essere tacciata di provincialismo.
Anche a causa della pandemia, infatti, ha preso piede in Italia una fiera di parole inglesi senza precedenti, a partire da lockdown per proseguire con smart working, facilmente sostituibile dall’italiano lavoro agile.
ANGLICISMI DI CUI POSSIAMO FARE A MENO
Dopo l’intervento di Draghi il presidente dell’Accademia della Crusca ha individuato per Repubblica gli anglicismi di cui gli italiani possono fare a meno. Da authority – per cui l’equivalente italiano autorità funziona benissimo – a performance, sostituibile con prestazione, da competitor (al posto del quale potrebbe tranquillamente essere usato concorrente) a slide, che trova il suo equivalente italiano in diapositiva.
Ulteriori esempi sono l’espressione sold out, che diventa semplicemente tutto esaurito, e baby sitting – uno dei termini contestati da Draghi – che si può invece tradurre con assistenza dei bambini. Oppure ancora standing ovation, per cui basta dire ovazione, backstage, che è il nostro retroscena e fake news, sostituibile con notizia falsa.
Anglicismi, dunque? Sì, ma con moderazione e senza abusi.