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26 Novembre 2021

L’italiano non può parlare di scienza?

La lingua di Dante è la grande esclusa da un bando ministeriale a sostegno della ricerca i cui progetti dovranno essere presentati solo in inglese

Vincenza Di Lecce

Bandiera britannica sovrapposta a quella italiana

Si riaccende la polemica sull’uso dell’inglese in ambito accademico

Studiate Boccaccio, ma non fatelo in italiano. La scelta del Mur – Ministero dell’Università e della Ricerca di introdurre nel bando del Fis (Fondo Italiano per la Scienza) l’obbligo dell’inglese, con la specificazione esplicita del divieto dell’italiano persino come lingua ausiliaria, ha riacceso vecchie polemiche. Dubbi e perplessità che ciclicamente tornano ad animare la questione dell’anglofonia del mondo accademico.

LE DISPOSIZIONI DEL MUR
Un finanziamento pari a 150 milioni di euro per il 2022: questa la cifra del Fis, il fondo destinato a incidere sulla ripresa post-pandemica dell’attività di ricerca pubblica e privata. Le disposizioni procedurali circa le modalità per concorrere alla distribuzione del fondo sono state pubblicate dal Mur  e tra le varie formule inglesi (“le relative deliverable e milestone”, i “Principal Investigator”, le “Host Institutions”) sono elencati anche i settori disciplinari coinvolti, che sono tre: LS (Life Sciences), PE (Physical Sciences and Engineering) e SH (Social Sciences and Humanities).
Tali disposizioni impongono che tutti i progetti vengano “presentati in lingua inglese a pena di esclusione ed irricevibilità” e che gli eventuali colloqui orali si svolgano nell’idioma di Shakespeare.

LA QUESTIONE DELLA LINGUA
I dubbi che animano la questione della lingua non sono nuovi e riguardano la spinta verso l’uso esclusivo dell’inglese in ambito accademico. Si tratta di una tendenza già in atto da anni: se nel 2012 la rotta fu cambiata e la domanda per i fondi poteva essere presentata a scelta in italiano o in inglese, nel 2017 ci fu un’accesa reazione contro la domanda ufficiale del Prin (Progetti di ricerca di interesse nazionale), richiesta obbligatoriamente in inglese.
Con il Fis la questione torna dunque a galla e lo fa con – se così la si può definire – un’“aggravante”: secondo le direttive del Mur, infatti, tenendo salvi i settori tecnico-scientifici, anche le discipline umanistiche (lingua e letteratura italiane comprese) dovranno obbedire all’obbligo dell’inglese.

PROVINCIALE RECITENZA…
C’è chi accusa di provincialismo antimoderno chiunque sostenga la tesi di una rottura tra la lingua e la cultura italiana con la scienza. Se la domanda è: ha senso che un ricercatore italiano, che magari si occupa di letteratura italiana, partecipi al bando di un fondo italiano con un progetto su un autore italiano (ad esempio Boccaccio) lavorandoci in inglese? La risposta è .
“Non regge la contrapposizione un po’ sciovinistica fra la nostra lingua e l’altrui, poiché le conoscenze si accumulano e non si cancellano”, scrive Antonio Gurrado in un articolo sul Foglio. “Se le controindicazioni – continua il giornalista – sono molto limitate, i vantaggi sono numerosi: anzitutto il bando Fis è rivolto a studiosi di tutte le nazionalità (i famosi principal investigator, cioè i coordinatori del progetto di ricerca): la lingua inglese è precondizione per attrarre ricercatori stranieri”.

…O DECLASSAMENTO DELL’ITALIANO?
Si dice invece preoccupato il Presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini, non tanto per la presenza dell’inglese, la cui richiesta, allo stato attuale, è ben comprensibile. Ma piuttosto per le motivazioni che hanno portato a escludere totalmente l’italiano, una formulazione esplicita anche più rigida che in passato e con una conseguente assunzione diretta di responsabilità.
“Una tale scelta – dichiara lo studioso nel suo articolo sul sito dell’istituzione  – non solo annulla ogni propensione al plurilinguismo ma, interpretata in chiave storica, pone una seria ipoteca sul futuro della lingua italiana come strumento di scienza e cultura, declassandone la funzione. L’eliminazione dell’italiano è in questo caso totale”.
Il presidente dell’Accademia della Crusca vorrebbe quindi essere certo che questa scelta sia stata dettata dalla piena consapevolezza dei costi e dei benefici e non da una tendenza alla semplificazione. O, peggio, dalla trasposizione meccanica di normative nate in contesti diversi. Vedremo come andrà in futuro.

 

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Categorie: Cultura

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