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6 Marzo 2019

La casa di Jack, l’arte per l’arte di Lars von Trier

Una recensione dell’ultimo film-provocazione del regista danese, che aveva già scosso i critici di Cannes

Luca Ferrua

Tre poster del film

È in questi giorni nelle sale italiane La casa di Jack, film di Lars von Trier di cui avevamo già parlato a maggio in occasione dell’ultimo Festival di Cannes. Allora la pellicola, presentata fuori concorso, suscitò parecchie critiche per le scene di violenza e attualmente il film è distribuito in due versioni, entrambe vietate ai minori: una doppiata in italiano con scene tagliate e un’altra integrale ma in lingua originale sottotitolata.
Noi siamo andati al Nazionale, unico cinema in Torino città ad averlo in cartellone, dove abbiamo assistito alla versione censurata e nonostante una parte del pubblico abbia abbandonato la sala a metà proiezione ne siamo rimasti piacevolmente colpiti. Prima però bisogna fare un passo indietro.

UN GENIO SREGOLATO
Per poter guardare – e di conseguenza provare a capire – l’ultima sfida di von Trier è necessario conoscere il percorso che lo ha portato a quest’opera.
Egli è infatti un regista che si contraddistingue per una profonda autovenerazione (basti pensare all’aggiunta del prefisso nobiliare “von” al suo nome), scomode fobie e anelazione alla rigida disciplina. Dopo una prima trilogia realizzata negli anni ’80, dove attraverso esperimenti stilistici racconta la decadenza dell’Europa, Lars von Trier fonda il Dogma 95, movimento cinematografico estremo e minimalista basato sull’uso esclusivo di telecamera a spalla, senza effetti speciali o colonna sonora (stile per questo definito come “voto di castità”).
Nonostante non abbia mai aderito rigidamente a questi schemi, il suo manifesto ha attirato nel tempo diversi registi e il crescente successo dell’autodefinitosi “masturbatore dello schermo” è proprio dovuto alla sua capacità di sperimentare nuovi stili e regole a ogni film. Ciò gli ha permesso di dedicarsi a una nuova trilogia chiamata Usa – Terra delle opportunità incentrata su di un’idealista di nome Grace nell’America degli anni ’30, esordendo con il celebre Dogville (film fortemente teatrale) e proseguendo con Manderlay. In questi anni la sua filmografia diventa sempre più introspettiva, autoreferenziale, pornografica e scioccante con film come Melanchonia e Nymphomaniac.
Perennemente alla ricerca di un’estasi estetica estrema, nel 2011 viene espulso dal Festival di Cannes per apologia del nazismo.

RITORNO ALLA RIBALTA
Dopo un silenzio di quasi cinque anni, Lars von Trier finalmente conclude la sua seconda trilogia con La casa di Jack. In questo caso il regista si distacca profondamente dalle opere precedenti, osservando piuttosto l’omicidio come opera d’arte. Il protagonista infatti non è più Grace, ma un serial killer degli anni ’70 (Matt Dillon) dalle manie ossessivo-compulsive; sparisce anche il palcoscenico minimalista comune ai primi due titoli, sebbene sopravviva la predilezione per la macchina da presa a mano.
L’opera si presenta come un elogio all’arte per l’arte, dove il processo di autoanalisi del protagonista avviene attraverso dialoghi con un dantesco Virgilio scritti a regola d’arte, anche se eccessivamente ridondanti. I 155 minuti del film, che pur scorrono senza difficoltà, sono un crescendo di pantomimica autoreferenzialità: è un film misogino, misantropo e amorale, apologico nei confronti di un’ossessiva ricerca dell’omicidio artisticamente perfetto. Qui von Trier non cela più la sua persona, ponendo sotto i riflettori il suo film più crudo e brutale che pare un’estasi autocelebrativa.
La fotografia, incentrata sulla ricerca della geometria perfetta, appare stucchevolmente barocca e dai colori eccessivamente saturi. Il sonoro al contrario è un punto di forza: accanto a una colonna sonora di prim’ordine il regista concentra l’attenzione su rumori ambientali proponendosi in contrapposizione ad Aronofsky. Là dove il regista statunitense li usa per rappresentare ansia e disagio, qui il cineasta danese li sfrutta per portare in scena la pace interiore di Jack, unica serenità paradisiaca di un personaggio vittima delle sue ossessioni.
Si tratta di un film dai toni kafkiani (la casa che Jack voleva costruire non arriverà mai, se non quando sarà troppo tardi) con un misticismo esasperato e una cruda autoindulgenza che potrebbe risultare eccessiva per alcuni, ma rimane un titolo assolutamente consigliato.

 

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Categorie: Cultura

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