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6 Maggio 2021

Curare il virus in ospedale: il lavoro dei “reparti Covid”

Una giovane dottoressa ci racconta la sua esperienza in un ospedale torinese durante la seconda ondata della pandemia

Adele Geja

Medico con protezione vicino a letto in ospedale

Nei reparti Covid ci sono molti medici neolaureati

A fine marzo avevamo intervistato un neolaureato in medicina impegnato negli interventi domiciliari delle Usca, ma il Coronavirus si combatte anche e soprattutto in corsia. Come funzionano esattamente questi reparti e come lavora chi è “in trincea” per sconfiggere il virus?
Abbiamo parlato con Alessandra, dottoressa originaria della Campania, che durante la seconda ondata ha risposto all’appello di un ospedale torinese in difficoltà.

Come sei arrivata a lavorare in un reparto Covid?
«Dopo la laurea conseguita presso il campus biomedico di Roma lavoravo per un progetto di ricerca sul tumore al seno a Reggio Emilia. A marzo 2020 sono stata ricollocata nell’igiene pubblica, dove mi occupavo del tracciamento dei contagi. In seguito sono tornata a casa a Sapri, in provincia di Salerno. Tuttavia, come medico, sentivo che non potevo tirarmi indietro: all’arrivo della seconda ondata mi sono candidata per lavorare con “contratto Covid” in alcuni ospedali in Emilia, a Milano e a Torino. Il 2 novembre ho risposto all’annuncio, il giorno dopo mi hanno chiamato dall’ospedale Maria Vittoria e il 5 sono partita».

In cosa consiste il tuo lavoro?
«Arrivati nel pieno dell’emergenza gli altri neolaureati e io abbiamo dovuto essere subito autonomi. Ci hanno aiutato la gentilezza e l’affabilità dei medici strutturati e la relativa facilità di gestione del Covid, per il quale si seguono protocolli standard. Ogni giorno facciamo un primo giro di visite, durante il quale misuriamo i parametri dei pazienti e li visitiamo, regolando di conseguenza i ventilatori e somministrando le terapie. Nel pomeriggio facciamo un secondo giro, verificando i casi critici e facendo fare alle persone già un po’ svezzate dall’ossigenoterapia il six minutes walking test. Benché facciamo sempre riferimento ai medici strutturati, con grandi numeri di malati anche un giovane neolaureato può essere un valido aiuto per i dottori più esperti».

Come funziona un reparto Covid?
«Il reparto è diviso in due aree “rosse”, dove sono ricoverati malati di gravità diverse, e una parte centrale che non deve mai contaminarsi. Prima di entrare nella zona infetta e prima di tornare nell’area pulita dobbiamo passare dalle “aree grigie”, dove ci mettiamo e togliamo con la massima attenzione due paia di guanti, la mascherina Fpp3, il visor e la tuta».

Hai avuto dei timori nell’affrontare questo incarico?
«Il timore principale era quello di non essere all’altezza del lavoro, sia a livello tecnico sia a livello emotivo. È stato difficile cambiare completamente vita, trasferendomi da un giorno all’altro dal “profondo Sud” in una città del Nord dove non conoscevo nessuno. Temevo anche di essere messa un po’ da parte, dato che in reparto sono l’unica non originaria di Torino. Invece ho trovato persone speciali, con le quali ho stretto da subito legami profondi».

Qual è stata la maggiore difficoltà?
«Nonostante la fatica dei lunghi turni, l’aspetto emotivo è la cosa più difficile. È complesso infatti riuscire a tenere sempre alto l’umore, cercando di confortare persone sole, esauste fisicamente e prive di qualsiasi sostegno affettivo. Per farci riconoscere scriviamo i nostri nomi sulle tute, teniamo per mano i malati e li aiutiamo a telefonare alle famiglie. Le videochiamate sono momenti molto intensi: spesso sono l’unico modo che i parenti hanno per dare ai propri cari l’ultimo saluto. Il ricovero inoltre provoca disagi fisici a cui è doloroso assistere: alcuni pazienti dopo un po’ non sopportano più il casco d’ossigeno e la posizione prona, altri fanno così fatica a respirare che non riescono neanche a mangiare. I peggioramenti e i miglioramenti sono rapidi: è commovente vedere riprendersi chi ha perso tante energie, così come è straziante salutare alla sera un paziente che non vedrai più la mattina dopo».

Come hai fatto a reggere la pressione nelle settimane più critiche?
«Cercavo di non pensare a me stessa, immergendomi completamente nel lavoro, con la mente sgombra da qualsiasi pensiero. Al mattino mi caricavo di energia e cercavo di trasmettere emozioni positive ai pazienti. Alla sera ero completamente scarica, spesso arrivavo a casa e scoppiavo a piangere. Da novembre a gennaio non ho staccato quasi mai. Quando mi sono fermata qualche giorno ho finalmente realizzato tutto quello che avevo vissuto».

Cosa ti ha lasciato quest’esperienza?
«Lavorando in un reparto Covid si vive un’esperienza umana, entrando nella vita dei malati e delle loro famiglie, diventando l’unica persona di riferimento nel periodo del ricovero. Nonostante le tante difficoltà, questo è stato un periodo molto formativo a livello personale. Porterò sempre nel cuore i messaggi di alcuni pazienti che mi hanno scritto ringraziandomi della dolcezza che ho cercato di trasmettere stando loro vicino».

 

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Categorie: Lavoro

Commenti (3)

  1. Paolo Farnetano ha detto:

    Emozionante il racconto,spezza il cuore di chi legge, coplimenti alla dottoressa Farnetano Alessandra, ti auguro di essere sempre positiva e la cosa che sarà sempre apprezzata da tutti e ti darà soddisfazione saluti

  2. Massimo Vicentini ha detto:

    Congratulazioni Dottoressa per la tenacia e la professionalità. Da questa intervista emergono tutte le emozioni che scaturiscono da questa attività. Un onore aver potuto lavorare con te a Reggio Emilia nel pieno della prima ondata.

  3. Andrea ed Elisabetta Borsari ha detto:

    Abbiamo avuto modo di conoscere ed apprezzare tramite nostra figlia Giovanna la grande disponibilità, sensibilità ed empatia della Dott.ssa Alessandra, sentimenti che vengono confermati e ribaditi attraverso questa forte esperienza di vita

    Andrea ed Elisabetta

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